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La commode realizzata nel 1744 da Jean-Antoine Gaudreaus e ora alla Reggia di Versailles. © Château de Versailles, Christian Milet

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La commode realizzata nel 1744 da Jean-Antoine Gaudreaus e ora alla Reggia di Versailles. © Château de Versailles, Christian Milet

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Una Circolare contraddice un Decreto del Mibact per vincolare anche opere non italiane prive di riferimenti storici

Emiliano Rossi

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È nota la controversia che, in anni recenti, ha riguardato la pregevole commode (un esemplare di una copia) realizzata nel 1744 dall’ebanista Jean-Antoine Gaudreaus per l’appartamento di Luigi XV nel castello di Choisy e vincolata dal Mibact nel 1986 con provvedimento motivato sulla base del suo pregio artistico e rarità nelle collezioni italiane.

La Fondazione Edmond J. Safra, proprietaria dell’importante arredo presente in Italia soltanto dal 1962, aveva richiesto la rimozione del vincolo ai sensi dell’art. 128 del Codice dei Beni Culturali e del Paesaggio, ma l’Amministrazione aveva in prima battuta negato il provvedimento richiesto. La Fondazione aveva quindi impugnato il provvedimento di diniego, ottenendone l’annullamento nel 2008. A tale annullamento era poi finalmente seguito un provvedimento di rimozione del vincolo, che era, a sua volta, stato inutilmente impugnato da Italia Nostra prima davanti al Tar e poi al Consiglio di Stato.

Infatti, sia il Tar sia il Consiglio di Stato avevano riconosciuto la legittimità del provvedimento di rimozione, sulla base dei criteri per l’adozione dei provvedimenti sull’esportazione previsti dalla Circolare del Ministero prot. 2718 del 13 maggio 1974, in allora applicabile.

In particolare, i giudici avevano considerato legittima la motivazione espressa dal provvedimento secondo cui, sebbene anche un bene di autore straniero possa essere dichiarato di interesse culturale a fini di tutela e sviluppo della cultura anche ai sensi dell’art. 9 della Costituzione, tuttavia il vincolo relativo alla commode doveva essere rimosso in quanto, come riconosciuto dal parere del comitato scientifico che si era pronunciato in proposito, il mobile non aveva un legame apprezzabile con l’Italia, posto che non aveva alcun rapporto con lo sviluppo della storia e dell’ebanisteria italiana e aveva avuto una permanenza nel nostro Paese relativamente breve e recente (circa vent’anni).

Nel formulare tale giudizio, i giudici avevano anche affermato rilevanti principi quali quello secondo cui «la nozione di “patrimonio culturale nazionale” volta a ricomprendere in esso qualunque oggetto di interesse storico artistico che sia comunque per ventura presente sul territorio italiano, trova le sue radici in una concezione dominicale, il cui culmine può ravvisarsi nel modello napoleonico di museo come “esposizione alla Patria” di una serie di opere, frutto di bottino, mostrate alla rinfusa, che non appare essere stata trasfusa nell’ordinamento giuridico vigente».

L’esito dell’annosa controversia è stato, infine, l’attuazione dell’annunciata donazione della commode da parte della Fondazione alla Reggia di Versailles (elemento che può avere in parte influito sulla decisione di rimozione del vincolo), presso cui ancora oggi si trova.

Il percorso argomentativo seguito dai giudici nel caso sopra descritto appare particolarmente rilevante e sembra essere alla base anche dei principi espressi sul punto dal Decreto del Mibact n. 537 del 6 dicembre 2017, che ha riformato i criteri per la valutazione del rilascio o diniego dell’attestato di libera circolazione per i beni di interesse artistico, storico, archeologico ed etnoantropologico, in precedenza previsti dalla menzionata Circolare del 1974.

Premesso che, negli anni, hanno acquisito rilevanza aspetti quali «la provenienza delle opere, la storia del collezionismo, la stratificazione dei contesti e la reciprocità degli scambi culturali tra diverse aree anche estere», il Decreto individua, tra gli altri, il criterio della «testimonianza rilevante […] di relazioni significative tra diverse aree culturali, anche di produzione e/o provenienza straniera».

In proposito, viene stabilito che tale criterio «si riferisce al caso di beni di qualunque epoca, compresi quelli di autore e/o di provenienza straniera o di autori italiani per una committenza o un mercato straniero, che costituiscono tuttavia una testimonianza significativa del dialogo e degli scambi tra la cultura artistica, archeologica, antropologica italiana e il resto del mondo. Proprio la provenienza da aree geografiche altre può costituire un arricchimento considerevole rendendo esplicite le interconnessioni territoriali che costituiscono un elemento cardine della cultura del nostro Paese in ogni epoca».

In proposito, il Decreto aggiunge che «per le opere straniere occorrerà tenere conto della specifica attinenza delle stesse alla storia della cultura in Italia. Ad esempio, un’opera straniera che sia appartenuta a una collezione italiana, in particolare a una collezione storica, potrà essere rilevante per la storia del collezionismo italiano».

Date tali premesse, appare in parte dissonante quanto affermato nella successiva Circolare della Direzione Generale Archeologia, Belle Arti e Paesaggio n. 13 del 24 maggio 2019, a firma dell’ex direttore generale Gino Famiglietti, secondo cui «l’attività di tutela non è però fine a se stessa, ma, nel disegno costituzionale, è finalizzata a contribuire allo sviluppo della cultura» per cui «il patrimonio artistico è nazionale nel senso che appartiene ai cittadini della Repubblica e che, al fine di poter contribuire allo sviluppo della cultura, deve poter comprendere tutte quelle componenti attraverso le quali sia possibile, per i cittadini tutti, accrescere le proprie conoscenze e migliorare la propria formazione, onde conseguire il pieno sviluppo della persona come previsto dall’art. 3 della Costituzione.

L’art. 9 della Costituzione non fa quindi alcun riferimento al Paese in cui i beni di interesse culturale sono stati prodotti, o alla nazionalità di coloro che di quei beni sono stati i creatori, ai fini della loro ascrizione al patrimonio della Nazione, perché si pone come obiettivo fondamentale la crescita culturale complessiva di tutti i cittadini che quella stessa Nazione compongono, anche attraverso la tutela, a fini di pubblica fruizione, dei beni di interesse culturale che non siano stati prodotti in Italia, ovvero da autori italiani, ovvero ancora per una committenza italiana».

A ben vedere, la Circolare appare rappresentativa di un indirizzo amministrativo che sembra prescindere dalle innovazioni introdotte del Decreto, il cui testo viene peraltro citato solo parzialmente, senza menzionare le precisazioni maggiormente innovative da esso introdotte alla luce della giurisprudenza più avanzata.

Ad esempio, non c’è alcun riferimento al fatto che il Decreto richieda, ai fini del vincolo delle opere straniere, la presenza di «interconnessioni territoriali» e la necessaria «specifica attinenza delle stesse alla storia della cultura in Italia», come, ad esempio, nel caso di un’opera straniera appartenuta a una collezione italiana.

Sarebbe legittimo, dopo il Decreto, vincolare una testa di Buddha o di una scultura africana che siano di particolare qualità e/o rarità ma che non abbiano alcuna interconnessione territoriale o attinenza con la storia della cultura in Italia, non appartenendo neppure a una collezione storica italiana?

Stando ai criteri dettati dal Decreto, è piuttosto dubbio che un siffatto vincolo sarebbe legittimo ma, stando alla Circolare n. 13, apparirebbe invece ancora possibile considerare tali beni come opere di particolare interesse per il patrimonio culturale della Nazione.
 

Emiliano Rossi, 05 marzo 2020 | © Riproduzione riservata

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