Il senese Duccio di Buoninsegna completò la sua unica opera firmata, la «Maestà», la grande pala d’altare per la Cattedrale della sua città, nella calda estate del 1311. Si trattava di una commissione pubblica così importante che l’intera città depose gli attrezzi da lavoro, prese candele e campane e seguì la festosa processione dell’opera dalla bottega dell’artista, fuori da una delle porte di Siena, fino alla Cattedrale. Immaginate l’equivalente di una sfilata di autobus scoperti del tardo Medioevo dopo che la squadra di una città si è aggiudicata per la prima volta la Champions League. Molto prima della nostra epoca caratterizzata dall’accesso illimitato alle immagini digitali dell’esperienza collettiva, questo è stato un momento in cui il popolo di Siena ha vissuto qualcosa che deve aver percepito come orchestrato da mano. Soprattutto, la processione della pala d’altare ci ricorda il desiderio umano di sfarzo e di spettacolo per sentirsi connessi a qualcosa di più grande di noi.
Alcune parti superstiti della «Maestà» sono al centro della mostra «Siena: la nascita della pittura 1300-1350», in corso al Metropolitan Museum of Art di New York fino al 26 gennaio 2025, il più grande e migliore insieme di pittura e scultura dell’infuocato calderone della Siena del XIV secolo che sarà allestita nel corso della nostra vita. La mostra è a cura di Stephan Wolohojian del Met e da Caroline Campbell, ex curatrice della National Gallery di Londra (ora direttrice della National Gallery of Ireland), che insieme facevano parte di un piccolo gruppo di persone che, circa sette anni fa, hanno concepito una rassegna di riferimento sulla prima pittura senese.
All’epoca doveva sembrare un’impresa impossibile. Per non parlare del fatto che la «Maestà» era stata smembrata nel 1771, con 33 elementi venduti e alla fine riuniti in dieci collezioni. Inoltre, molte delle opere esposte, come il pregevole «Ritorno di Gesù dal tempio» (1342) di Simone Martini, acquistato nel XIX secolo per la città di Liverpool, non avevano mai lasciato le rispettive collezioni. La prossima primavera la mostra si trasferirà alla National Gallery di Londra, che ha concesso prestiti importanti come la tavola a tempera e oro di Duccio «La Vergine col Bambino e i santi Domenico e Aurea» (1312-15 ca), che a distanza di oltre sette secoli ha perso ben poco della sua dettagliata vitalità.
Il fatto che i curatori siano riusciti a convincere collezionisti e conservatori a esporre pannelli della «Maestà» senza le loro cornici e le loro teche a temperatura controllata è un risultato importante. Liberati e in bella vista, possiamo esaminare più da vicino la follia e l’ingegnosità formale di un’opera come la surreale «Tentazione di Cristo sul monte» della Frick Collection, parte della «Maestà», in cui Cristo e il diavolo conversano, scuotono le dita e si pavoneggiano sulle cime di colline popolate di città in miniatura.
Insieme al suo rivale fiorentino Giotto, Duccio è l’artista che ha finalmente messo a tacere l’aurea piattezza della ritrattistica tardo bizantina e ha aperto alla pittura nuovi angoli e prospettive ortogonali. È una doppia gioia vedere come Duccio abbia deciso di mettere il suo talento al servizio della sua immaginazione fantastica piuttosto che della pura esattezza geometrica.
Come ci si potrebbe aspettare, molte delle opere esposte sono state commissionate per l’opulenza della Cattedrale tardomedievale della città, oppure sono oggetti di devozione privata e da esibire nelle assolate ville dell’élite toscana. Ma quando si entra nella mostra, sembra di essere rinchiusi in un caveau sigillato. L’ambiente è cupo, buio e silenzioso. Le pareti monastiche sono per lo più tutte nere, con solo qualche sporadico tocco di bianco, un accenno alla bandiera senese bicolore, mentre delicati faretti illuminano le opere come un palcoscenico teatrale.
Il polittico di Simone Martini che raffigura cinque santi, tra cui un San Pietro rammaricato e uno sfiduciato Sant’Ansano, patrono di Siena, decapitato per ordine dell’imperatore romano Diocleziano, è straordinariamente eseguito e conservato in modo immacolato. Altrove, la «Croce Sagomata» di Pietro Lorenzetti, un enigma in quanto troppo piccola per la navata di una chiesa e troppo grande per la pratica devozionale, mi ha ricordato il fascino intimo di un «cut out» di Alex Katz. Come Katz, Martini ha compreso come la forma ritagliata possa invitarci nello spazio in modo completamente diverso da una scultura tridimensionale: contro le nostre aspettative, ci sentiamo ancora più presenti nella scena.
Se è un peccato che il pannello centrale della Maestà, che mostra la Vergine su un trono di marmo, non abbia potuto lasciare il Museo dell’Opera di Siena, il «Polittico della pieve di Arezzo» (1320) di Pietro Lorenzetti, in prestito dalla Chiesa di Santa Maria della Pieve di Arezzo, la raffigura al centro di un’avvincente narrazione pittorica.
A Siena la Vergine era venerata non solo come Regina del Cielo ma anche come protettrice della città, dopo che si riteneva fosse intervenuta nella battaglia di Montaperti del 1260, una delle più sanguinose dell’epoca, in cui le guarnigioni senesi, in inferiorità numerica, sbaragliarono i rivali fiorentini. Ma nemmeno la Vergine riuscì a salvare Siena da ciò che venne dopo: nel 1348, all’apice della sua potenza, la peste bubbonica colpì senza pietà le aree urbane della città.
Duccio, i fratelli Lorenzetti e Simone Martini, che avevano abbandonato Siena per la corte papale di Avignone, erano già morti nel 1350. L’esperimento di governo di Siena, «Il Buon Governo» (in cui i rappresentanti locali vivevano insieme nel Palazzo Pubblico a rotazione per due mesi, lavorando sotto gli sguardi dell’affresco di Ambrogio Lorenzetti «L’Allegoria ed effetti del Buono e del Cattivo Governo») non diede buoni risultati in tempo utile. Siena perse ben metà della sua popolazione in sette mesi.
Se è vero che Firenze subì un destino simile, quella metropoli si sarebbe presto risollevata e infine avrebbe prosperato grazie al nuovo capitale mercantile che si unì alla Chiesa per alimentare una classe artigiana emergente, aprendo la strada al Beato Angelico e a Donatello. Tutto ciò corrisponde al tema della mostra: non appena fattori fortuiti si combinano per fare di una città un centro fiorente per l’arte e la creatività, forze impreviste, come una pandemia, possono distruggerla altrettanto rapidamente. Siena offre un raro scorcio di un mondo intero in cui tutto sembrava possibile. Andate a vederla prima che scompaia di nuovo.