Da quasi cinque decenni Sophie Calle (Parigi, 1953) combina fotografie, testi, oggetti e video per esplorare la complessa natura delle relazioni umane. Nel 2007 ha rappresentato la Francia alla Biennale di Venezia con «Take Care of Yourself», un’opera in cui ha chiesto a 107 donne di interpretare una lettera ricevuta da un amante che l’aveva lasciata. L’anno scorso, la sua mostra «À toi de faire, ma mignonne» ha occupato l’intero Musée Picasso di Parigi, segnando il 50mo anniversario della morte di Pablo Picasso con una meditazione tipicamente estrema sulla morte della stessa Calle, che comprendeva un necrologio, il contenuto inventariato della sua casa e una bara appositamente selezionata.
La sua ultima mostra, «Overshare», in corso fino al 26 gennaio 2025 nel Walker Art Center di Minneapolis, è la prima in Nord America che esplora l’intera gamma della sua pratica, includendo sia le opere più importanti sia quelle meno conosciute. All’inizio di quest’anno è stato anche annunciato che l’artista è una dei cinque vincitori, insieme alla collega Doris Salcedo (sezione Scultura), del Praemium Imperiale 2024 (la premiazione si tiene a Tokyo il 19 novembre, Ndr).
«Overshare» (Condivisione eccessiva) è un titolo intrigante per la sua mostra al Walker Art Center. Il suo lavoro è spesso descritto come intimo o addirittura voyeuristico, ma probabilmente nasconde tanto quanto rivela. Il critico e curatore Robert Storr l’ha descritta come «la struttura del segreto, ma non il segreto stesso». Che cosa pensa dell’oversharing?
La gente pensa di conoscere la mia vita, in realtà non sa nulla perché condivido molto di un momento, di una situazione, ma allo stesso tempo non dico nulla della mia vita. Non ho Facebook, non ho Instagram, e condivido molto meno di tutte quelle persone che hanno un blog o che sono sui social media. Parlo di tre uomini, perché sono state tre rotture interessanti. Ma non parlo dei miei amici, non parlo dell’uomo con cui ho vissuto per 20 anni. Non parlo di tutto questo. Alla fine, non credo di condividere molto.
Ciononostante, il suo lavoro offre l’accesso a parti della vita sua e altrui, che possono risultare scomodamente private ma anche assolutamente avvincenti e irresistibili.
Ma allo stesso tempo, non dico nulla. In «Suite Vénitienne» (1980) seguiamo un uomo a Venezia, ma non sappiamo chi sia. Vediamo solo ciò che è visibile dall’esterno. In «The Hotel» (serie del 1981, Ndr) vediamo gli oggetti delle persone, ma non sappiamo chi siano. Quindi si tratta di condividere e allo stesso tempo di nascondere tutto.
Anche l’idea di gioco è molto forte: il giocatore assume il ruolo di giocatore, ma anche di colui che stabilisce le regole del gioco. Lei sceglie le situazioni e poi le mette in moto, con istruzioni molto specifiche a cui si attenete mentre lascia che le cose si svolgano. Questa tensione tra controllo e mancanza di controllo sembra cruciale.
Sì, perché una volta che conosci le regole del gioco, puoi entrare e lasciarti andare, perché c’è una struttura già progettata. Sono una maniaca del controllo, ma mi piace anche giocare con ciò che capita. Per me è lo stesso paradosso di «Overshare».
Come decide le regole del gioco?
A volte la regola del gioco disegna l’intero progetto, altre volte è un invito molto rigido. Per esempio, ho rifiutato per due anni la mostra del Musée Picasso perché pensavo che Picasso fosse troppo opprimente e di non potermici accostare. Poi sono stata invitata da Laurent Le Bon (l’ex direttore del museo, Ndr) a visitare il museo durante il Covid, e in quel momento sarei andata ovunque pur di uscire di casa. Così ci sono andata e sono rimasta sorpresa nel vedere tutti i dipinti di Picasso avvolti e nascosti. Allora ho pensato: «Ok, posso farlo. Posso stare accanto a un fantasma, posso stare accanto a un Picasso che è lì ma che non si vede». Questo è stato ciò che mi ha aperto la strada: improvvisamente potevo trattare Picasso utilizzando la sua assenza. Ho iniziato con il fantasma di Picasso, poi ho cercato cose con cui giocare. La regola del gioco è nata da questa improvvisa apertura dell’assenza di Picasso.
Anche circostanze o incontri inaspettati mettono in moto le opere, come nel caso dell’incontro casuale con un uomo a un’inaugurazione d’arte che ha dato il via a «Suite Vénitienne» (1980), con lei che lo segue a Venezia e la storia che si sviluppa quasi come una reazione a catena.
Ho realizzato «Take Care of Yourself» (2007) perché ho ricevuto una lettera che comunicava la di rottura della mia relazione e ho subito lo shock di leggere quella frase scritta da un uomo che mi dice «Prenditi cura di te» quando se ne va. Quindi a volte si tratta solo di una frase, oppure di un incontro casuale. Il mio progetto con i non vedenti («The Blind», 1986, Ndr) è nato dal fatto che, attraversando la strada, ne avevo sentito uno dire a un altro: «Ieri ho visto un film molto bello», e improvvisamente il paradosso della frase mi ha colpito.
«Overshare» è divisa in quattro sezioni: «La spia», «Il protagonista», «La fine» e «L’inizio», che abbracciano la sua carriera dalla fine degli anni Settanta fino a pochi anni fa. Naturalmente, queste sezioni si sovrappongono e in tutte è presente la sua particolare risposta alle relazioni umane, ai bisogni e ai desideri.
Si tratta sempre di qualcosa che manca, questo è il legame che trovo in tutta l’opera. Si tratta di un uomo che se ne va, di una madre che muore, di un uomo che non vede, di un dipinto che è stato rubato, di un detective che segue una sagoma e non un personaggio reale, o di persone che dormono senza che sia sappia nulla di loro, solo la superficie del loro sonno. Si tratta sempre di qualcosa che non c’è.
Perché pensa che sia così?
Se sono felice con un uomo, non voglio scrivere di lui o fare un’opera su di lui. Voglio vivere con lui, non guardarlo da lontano. Quando realizzo un progetto, spesso è perché qualcosa sta scomparendo, sta andando via, mi sfugge dalle mani. Quando ho filmato mia madre che moriva, era un modo per stare con lei notte e giorno, per tenerla vicina. Ora, grazie a questo progetto sulla sua morte, «Pas pu saisir la mort» (Impossibile prendere la morte, 2007), stiamo parlando di lei e lei è ancora lì con me ogni giorno. Con «No Sex Last Night» (1992), legato a una nuova rottura sentimentale, anche se è stato doloroso, attraverso quel film siamo rimasti insieme... Quindi realizzare progetti di questo tipo può essere un modo per non lasciare andare le cose e per ribaltare situazioni troppo difficili da affrontare.
La morte è un tema dominante in tutto il suo lavoro: le lapidi degli sconosciuti, la morte dei suoi genitori, un memoriale musicale per il suo gatto e persino la sua stessa morte, presente nella mostra del Musée Picasso. Ma la morte è trattata con umorismo, lei non è mai morbosa o sentimentale.
Perché se sei molto emozionato dal progetto, non lasci spazio a nessun altro, decidi tu per loro. L’unico modo per descrivere quei momenti difficili è essere sintetici, prendere le distanze e lasciare spazio agli spettatori.
Lei è spesso associata a scenari che si spingono al limite, a rovistare in una rubrica trovata, a scrutare gli sconosciuti, a filmare sua madre sul letto di morte. All’interno delle regole che si è data, ha dei parametri?
È il progetto che dà il limite. Mia madre era molto eccentrica e voleva essere sempre al centro dell’attenzione. Mio padre era un protestante, molto discreto. Voleva nascondersi. Quando ho filmato per ore e ore mia madre che moriva, sapevo che le sarebbe piaciuto. Se l’avessi fatto con mio padre, in un certo senso sarebbe stata un’aggressione. Quindi, a volte il limite non è nemmeno l’idea, ma la persona di cui si tratta. Inoltre, il limite può consistere nel fatto che a volte ci si chiede se vale la pena farlo. Ogni idea ha il suo limite. È interessante, è abbastanza poetica? O è solo provocatoria? Anche in questo caso, dipende. A volte mi piace una piccola provocazione perché alla fine funziona.
Lei è appena stata insignita del Premio Praemium Imperiale 2024, sorprendentemente nella categoria della pittura, un mezzo al quale non è solitamente associata. Che cosa prova nel vincere questo prestigioso premio?
È davvero strano diventare improvvisamente una pittrice. Ma dato che non c’è una categoria per la fotografia, bisogna adattarsi. Forse dovrei adattarmi anch’io al premio e iniziare a dipingere? E le mie sensazioni? Principalmente sono felice quando scorgo l’elenco degli artisti che l’hanno vinto.