Bernard Marcelis
Leggi i suoi articoliJulie Bawin, docente di storia dell’arte all'Università di Liegi, firma Art public et controverses. XIX-XXIe siècle, un primo, importante, studio complessivo sulle polemiche nate intorno alle opere d’arte collocate nello spazio pubblico. Per spazio pubblico s’intendono i luoghi accessibili a tutti, a differenza di musei, istituzioni, fondazioni o centri d’arte specificamente dedicati all’esposizione di opere d’arte. Spesso commissionate dalle autorità pubbliche, queste opere sono quindi finanziate con fondi pubblici, il che in ultima analisi equivale al denaro dei contribuenti. Di conseguenza, questi ultimi, come le autorità politiche, sente di avere voce in capitolo riguardo alle creazioni artistiche. L'argomento riguarda tanto l’ambito sociale quanto quello politico e può talvolta degenerare per un semplice malinteso o, più spesso, a causa di opinioni ideologiche o artistiche divergenti.
L’opera non è una storia dell’arte nello spazio pubblico, ma si concentra sulle controversie che hanno alimentato numerosi dibattiti dalla metà del XIX secolo. Queste possono provenire dal potere in carica, la cosiddetta «censura verticale», o dalla società civile, la «censura orizzontale»; che oggi è particolarmente attiva, in tutti i settori, tramite i social network. Dal punto di vista sociologico, l’analisi segue quindi anche l’evoluzione delle mentalità e la definizione di criteri di valutazione modulabili di ordine estetico, morale, religioso e politico propri di ogni epoca, fino alla nostra, in cui la censura si contende il primato con il «wokismo».
Resistenze alla censura
Lo studio vero e proprio è diviso in tre grandi parti. Nell’800 compaiono casi di resistenza all’arte pubblica allora in voga, cioè essenzialmente la statuaria. In Francia, tra le altre cose, si parla della saga di «La Danse» (1869) di Jean-Baptiste Carpeaux, commissionata per la facciata dell'Opéra Garnier di Parigi (il realismo dei nudi femminili causò all’epoca grande scandalo), e della polemica intorno al «Monumento a Balzac» (1898) di Auguste Rodin (i critici si scatenarono, definendolo «rospo in un sacco», «menhir» o «pupazzo di neve»), mentre in Belgio lo scultore Jef Lambeaux è oggetto di due controversie: una legata alle «Passions humaines» ospitate in un padiglione costruito da Victor Horta nel parco del Cinquantenaire, a Bruxelles; l’altra, all’installazione, nel 1905, di «Faune mordu» nel parco di La Boverie a Liegi. Controversie che si verificano sullo sfondo di conflitti politici e ideologici tra vecchio e nuovo, riguardanti, da un lato, le valutazioni estetiche tra liberali e socialisti e, dall’altro, considerazioni relative alla morale o alla religione cattolica. Quando la politica s’intromette in questi conflitti, la discussione artistica passa in secondo piano, eclissata dal potere e dalla volontà di una parte.
Il ’900 è attraversato dalla distruzione di monumenti sotto il regime nazista, dall’anticomunismo, soprattutto negli Stati Uniti (Diego Rivera nel 1933 ne è stato una delle vittime, con il suo murale «L’uomo al bivio» destinato al Rockefeller Center), e, per avvicinarci a i nostri giorni, da ciò che l’autrice definisce «i due grandi casi degli anni ’80». Si tratta, da un lato, della rimozione nel 1989 a New York della scultura «Tilted Arc» (1981) di Richard Serra e, dall'altra, della vasta polemica riguardante «Les Deux Plateaux» (1986) di Daniel Buren, installazione più nota come «le colonne di Buren», collocata nel cortile del Palais-Royal, a Parigi. Julie Bawin dedica numerosi capitoli a questi «affari» che, come i precedenti, si leggono come un thriller.
L’intransigenza dimostrata da Diego Rivera e Richard Serra in questi lunghi conflitti non è indubbiamente estranea al fatto che le loro opere non si sono conservate. Daniel Buren, invece, ha portato la sua battaglia in tribunale, facendo valere il diritto morale dell’artista sul suo lavoro (diritto applicabile in Francia, ma inesistente negli Stati Uniti) per mantenere e completare «Les Deux Plateaux». Da allora le colonne sono state ampiamente adottate dal pubblico che frequenta il Palais-Royal e l’artista ha acquisito una certa notorietà. Questo avvincente capitolo si conclude con alcune considerazioni pertinenti sul rapporto, sempre attuale, tra arte contemporanea e patrimonio; come il processo di «elitarismo» che spesso il grande pubblico fa agli artisti contemporanei, a cui a volte si uniscono i politici pensando di soddisfare una parte del loro elettorato.
Un problema sociale
Il XXI secolo è tutt’altro che avaro di situazioni di questo tipo. Si parla a turno di «Bambini impiccati» (2004) di Maurizio Cattelan a Milano, di «Verity» (2012) di Damien Hirst (la scultura di una donna incinta sezionata a metà che troneggia a Ilfraconbe, sulla costa meridionale dell’Inghilterra), dell’«anal plug» di Paul McCarthy («Tree»: ufficialmente un albero di Natale gonfiabile, ma dalle forme troppo simili a un «sex toy» ) installato nel 2014 in Place Vendôme a Parigi, della «vagina della regina» di Anish Kapoor («Dirty Corner», 2011) esposta nel 2015 nei giardini della Reggia di Versailles, del «Bouquet of Tulips» offerto da Jeff Koons alla città di Parigi nel 2019, o ancora le accuse di antisemitismo che hanno giustamente ostacolato il buon svolgimento della Documenta 15, a Kassel, nel 2022, progettata dal collettivo indonesiano Ruangrupa.
Il libro si chiude con polemiche di tutt’altro tipo, poiché riguardano l’integrità fisica e morale delle vittime. Viene così evocato il caso del francese Claude Lévêque, accusato di pedofilia ma non ancora processato. La diffusione del suo lavoro si è bruscamente interrotta e le sue opere in spazi pubblici sono state messe «in sordina». Lo stesso è accaduto al coreografo e artista visivo belga Jan Fabre, condannato nel 2022 per oltraggio al pudore e molestie sessuali a diciotto mesi di carcere con sospensione condizionale della pena (l'artista non ha fatto ricorso). Se come coreografo è ormai meno seguito, la sua opera di artista visivo è ricomparsa, occasionalmente, soprattutto nelle fiere d’arte dalle gallerie che gli sono rimaste fedeli. Si tratta, tendenzialmente, della questione ricorrente e quasi irrisolvibile di distinguere tra l’uomo e l’opera. Una vera e propria questione sociale.
Dopo Art public et controverses, finalista al Prix Pierre Daix 2024 (il premio creato nel 2015 da François Pinault in memoria dello storico dell’arte, suo amico, scomparso l’anno precedente. Il riconoscimento è destinato a un’opera dedicata alla storia dell’arte moderna e contemporanea), Julie Bawin pubblica questo mese il saggio, dedicato alla curatela di mostre, De quoi le curating est-il le nom ? Métamorphoses d'une pratique dans le champ de l’exposition (128 pp., La Lettre Volée, Bruxelles 2025, € 28).
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