Milano, 28 novembre 1970. In Comune nessuno sa che cosa bolle in pentola, quando danno i permessi per montare in piazza Duomo un mammozzo di dieci metri che verrà svelato quella sera alla performance «La Vittoria o il Suicidio della macchina». Si sa solo che l’artefice è uno svizzero, che da un pezzo espone bizzarre sculture di ferraglie raccattate dagli scarti industriali, contravvenendo agli unici postulati ancora associabili alle opere d’arte: che almeno se ne stiano zitte e ferme. E invece le sculture di Jean Tinguely non solo si muovono e fanno rumore, ma quel loro movimento le porta ad autodistruggersi. E tanti saluti allora all’altro dogma per il quale l’arte deve produrre un manufatto, un’opera, conservabile (e commerciabile). Nel marzo del ’60, nel giardino del MoMA, l’«Hommage à New York» contestava insieme il mercato dell’arte e l’istituzione museale. Quello stesso anno, a casa di Yves Klein, aderiva ai Nouveaux Réalistes che avevano fatto la loro prima uscita proprio a Milano.
Ma il ’60 è un anno importante, per Tinguely, anche perché si separa dalla moglie e si mette con un’artista ancora più fuori di testa di lui, bella quanto sfrenata. È Niki de Saint Phalle, francese ma di facoltosa casata newyorkese, modella a tempo perso con un bel curriculum di traumi famigliari ed elettrochoc a ripetizione (a 11 anni era stata stuprata dal padre: riesce a raccontarlo solo mezzo secolo dopo, nel ’94, in una lettera alla figlia riprodotta nel libro d’artista Il mio segreto, pubblicato in occasione della mostra; traduzione di Silvia Riboldi, 40 pp., 24 Ore Cultura, Milano 2024, € 18).
Niki è l’unica donna dei Nouveaux Réalistes: in piazza Duomo c’è anche lei, perché la «Vittoria» è il decennale del gruppo, che coincide col suo funerale. La Rivoluzione è finita, e abbiamo vinto. Caduto il drappo appare un fallo gigantesco che brucia spruzzando in cielo petardi, mentre un ubriaco canta «O sole mio». A differenza del fallico Pulcinella di Gaetano Pesce, che oggi tanta chiacchiera desta a Napoli, esplicita è la dissacrazione di Tinguely della tradizione artistica (la «Vittoria di Samotracia») ma anche della sua stessa avanguardia, dell’Italia che lo ospita e della sua inveterata devozione cattolica. E Niki? Quel pomeriggio in Galleria, circondata da un cordone di poliziotti preoccupatissimi e inguainata in una tuta di velluto nero, mette mano alla carabina e comincia i suoi «Tiri», sparando su un tabernacolo di madonne e crocifissi che si cospargono di vernice rosso sangue. «Non ho mai sparato contro Dio, dichiara, io sparo contro la Chiesa». Figurarsi: per i giornali italiani è la «terrorista dell’arte». Jean e Niki lasciano il sagrato a soqquadro e, prima che qualcuno ci ripensi, fanno perdere le loro tracce.
Se è stato un caso (come si dice) che le grandi retrospettive dei Bonnie e Clyde dell’avanguardia, come li hanno chiamati, siano state organizzate nello stesso periodo nella città di quell’occasione scandalosa (con oltretutto una dei responsabili in comune, Lucia Pesapane), è stato un caso fortunato. Spazi espositivi e stili allestitivi esaltano le differenze fra due artisti che unirono le loro traiettorie per un periodo non breve (e rimasero legati, in diversi progetti, anche dopo essersi lasciati).
La più completa retrospettiva di Tinguely mai realizzata in Italia presenta 50 opere nel colossale spazio continuo e nell’illuminazione tenue del Pirelli HangarBicocca («Jean Tinguely», fino al 2 febbraio 2025) dove sorprendono il visitatore i rumori e le luci delle macchine che si azionano senza preavviso. Sento qualcuno che lo liquida come un luna park (le famiglie ci portano i bambini deliziati), ma Tinguely ne sarebbe stato contentissimo. L’andirivieni tra fionde lanciabottiglie e betoniere rottamatrici ricorda i circuiti delle gare automobilistiche, delle quali era appassionatissimo. Due traumi-chiave (un incidente nel ’57 gli schiaccia la cassa toracica, nel ’71 muore in gara l’amico pilota Joseph Siffert), anziché mitigare, esaltano questa sua ossessione. La sua mostra più grande, a Palazzo Grassi nell’87, s’intitola «Una magia più forte della morte». Ma questo esorcismo della pulsione di morte, in lui sempre ossessiva, si produce, se si produce, all’interno di ogni singolo lavoro, mentre la traiettoria complessiva resta sino alla fine un circuito senza vie d’uscita, giro della morte dopo giro della morte.
Esattamente il contrario vale per Niki de Saint Phalle («Niki de Saint Phalle», fino al 16 febbraio 2025). Lo racconta bene la breve, appassionata biografia scritta per la collana «Oilà» da Lorenza Pieri (Volevo un regno più grande. Niki de Saint Phalle, 96 pp., Electa, Milano 2024, € 12): alla postura da vendicativa Erinni della Niki col fucile anni Sessanta (una vera Nike, motteggia Antonio Rocca in catalogo; della sua icona in tuta bianca aderente si ricorderà Quentin Tarantino per la Uma Thurman di «Kill Bill») succede la matriarca irenica che milita per tutte le cause giuste e gonfia rassicurante il suo avatar, una volta così elegante e tagliente, nelle Nana morbidose che ne fanno oggi una star mondiale; il suo percorso sempre più luminoso (così pure nelle sale del Mudec) si conclude con l’allestimento del Giardino dei Tarocchi a Garavicchio, vicino a Capalbio, pacioso e giocoso remake del Sacro Bosco di Bomarzo, dove ogni trauma appare superato. Ma parla chiaro il suo culto per l’Antoni Gaudí del Parco Güell: il rivestimento delle Nana e dei Mostri Buoni di Garavicchio è realizzato con la tecnica del Trencadís, che per il maestro della Sagrada Familia è cifra della luce divina rifratta negli sguardi dei devoti. Come ogni bestemmiatore, Niki non s’è mai liberata della religiosità di famiglia: nello spazio più intimo del Giardino c’è una Madonna ex voto, per Jean sopravvissuto a un intervento al cuore. Lucia Pesapane ne fa un’apostola della «non violenza», antesignana di #MeToo e del decolonialismo, cioè della più banale arte rivendicativa di oggi. Ma Niki, ai tempi belli, con tutta evidenza non era non violenta. Non era rivendicativa, bensì vendicativa. Il suo non era «un approccio universalistico», ma riottosamente idiosincratico (ha ragione Raffaella Perna, in catalogo, a contrapporre il suo primo tiro al bersaglio, il «Saint-Sébastien» del ’61, ai tirassegno metafisici di Jasper Johns: per lei c’è sempre un obiettivo preciso sul quale fare fuoco). Proprio non era una brava ragazza, insomma, e se di qualcosa fu antesignana lo fu del punk. Quando come donna s’è salvata, come artista si è risolta; e dunque si è perduta.