Giovanni Curatola
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Recentemente, e come sempre solo per qualche giorno ma con grande effetto circense, la stampa nazionale e internazionale ha dato ampio risalto a una sentenza della Corte di Giustizia Europea (con sede in Lussemburgo) circa la legittimità del licenziamento di due donne che sul posto di lavoro indossavano il cosiddetto velo islamico. I casi discussi sono stati quelli della belga Samira Achbita, receptionist (G4S Secure Solutions NV) e della francese ingegnere Asma Bougnaoui (Micropole SA), entrambe licenziate per il loro abbigliamento.
Nella sentenza si afferma che: «Una regola interna che proibisca di indossare in modo visibile qualsiasi segno politico, filosofico o religioso non costituisce diretta discriminazione». Naturalmente un po’ dappertutto la sentenza è stata accolta dal tifo sguaiato delle opposte tifoserie.
Io sono rimasto semplicemente allibito dai contenuti della sentenza. Per una ragione assai semplice. E mi spiego, o ci provo. I giudici, mi sembra, sono caduti a piè pari in una sorta di trappola consuetudinaria. A digiuno, così risulta, di basilari nozioni di cultura islamica, si sono arrogati il diritto di stabilire che il «velo» è un segno religioso, dando implicitamente ragione a coloro che agitano questo argomento, anche per parlare di discriminazione delle donne musulmane. Anch’io ho sentito, innumerevoli volte la fandonia (FANDONIA; diz. it.: cosa non vera, bugia) che le donne musulmane debbano coprirsi la testa per obbligo religioso. Si tratta, certamente, di un uso molto diffuso e ammettiamo pure che sia maggioritario nell’Islam di oggi, ma di certo non è attestato nel Libro Sacro.
Vorrei citare il famoso libro (non a caso messo all’indice da alcuni nell’Islam) di Nabia Abbott (una islamista e anche una femminista!): Aishah, the beloved of Muhammad, che è illuminante anche sull’origine dell’uso del velo, quale segno distintivo aristocratico (un marxiano direbbe di classe!), delle donne della Famiglia del Profeta.
Insomma, fra i precetti dell’Islam, nel Corano, nella religione islamica, non sta di sicuro scritto che le donne debbano velarsi, esattamente come non ci sta scritto che si devono fare attentati suicidi o atti di terrorismo. Tanto è vero che molte buone, anzi ottime e devotamente pie, donne musulmane (esattamente come le altre) non lo mettono. Che poi alcune donne dicano che il velo è un segno religioso non è di per sé affatto probante, ma potrebbe essere definito semplicemente come propaganda. Però se questo lo afferma un organo (letteralmente ed etimologicamente ignorante) come la Corte di Giustizia Europea, questo sì che lascia più che perplessi. E fa un danno enorme perché paradossalmente conferma autorevolmente e diffonde una falsità. Gente, si tratta di abbigliamento, di un uso e di un costume e di un fatto, che piaccia o meno, solo culturale, non religioso! Certo, l’Iran impone alle donne (tutte le donne: musulmane, cristiane, ebree, indù, scintoiste, buddhiste o quant’altro) di coprirsi il capo, come legge civile dello Stato votata da quel Parlamento. E proprio perché è di TUTTE le donne è segno di discriminazione, se vogliamo, ma non di tipo religioso, altrimenti le non musulmane perché dovrebbero velarsi? Insomma un bel casino.
Adesso mi aspetto che qualche bell’ingegno musulmano (leggetevi Sottomissione di Michel Houellebecq, tanto per gradire) se ne venga fuori, qui da noi, con la richiesta di licenziare qualche suora da un ospedale italiano perché vestita da suora. E poi la Corte Europea di Giustizia, per coerenza, gli darà ragione. Siamo seri, ma anche no, se un organismo così paludato prende una tale, indifendibile, topica!
Giovanni Curatola professore ordinario di Archeologia e Storia dell’arte musulmana, Università di Udine
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