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Barbara Antonetto
Leggi i suoi articoliNon è certo una novità che l’Umbria offra svariate opportunità di visita e che possa accontentare chi ama l’arte, così come chi cerca momenti di riflessione religiosa, chi voglia immergersi nella natura e chi voglia percorrere dei cammini (a partire da quello sulle tracce di san Francesco), chi sia interessato alle rievocazioni storiche, alle feste popolari o chi abbia la passione per l’enogastronomia e per le sagre, ma un’ulteriore chiave per scoprire la regione è quella suggerita dall’Associazione Strada dell’olio e.v.o. Dop Umbria in collaborazione con la Camera di Commercio: l’oleoturismo esperienziale, gli «Evo&Art Experience», tour incentrati sulla cultura dell’olio, sull’arte e sul paesaggio nelle cinque sottozone della Dop Umbria che culmineranno con le iniziative di «Frantoi Aperti» in Umbria 2025, in programma dal 18 ottobre al 16 novembre.
L’olio è un prodotto che affonda le radici nella storia del territorio fin dall’epoca degli Umbri, che già tra il VI e il V secolo a.C avevano raggiunto un alto grado di civiltà e, ben prima di essere assimilati dai romani, producevano ceramiche e olio, utilizzato anche come moneta di scambio. Gli ulivi rappresentano a tal punto un paesaggio identitario per la regione che la fascia olivata tra Assisi e Spoleto ha fatto domanda del riconoscimento da parte dell’Unesco.
La romanizzazione ha lasciato segni molto importanti in Umbria basti pensare a quelli nella città di Spoleto, la città Caput Umbriae fino all’inizio del XIX secolo (il Ducato di Spoleto, a cui è dedicato il museo all’interno della Rocca Albornoziana, era un’entità culturale, territoriale e politica costituitasi nel VI secolo con la conquista longobarda e rimasta in essere fino all’annessione allo Stato della Chiesa nel 1198); il teatro, i resti del tempio nel foro (l’attuale Piazza del mercato), le colonne di San Salvatore, un’elegante casa patrizia nei pressi del foro, l’Arco di Druso e il Ponte Sanguinario che connetteva la città al Monteluco, il bosco sacro dedicato a Giove. Di straordinario interesse anche le testimonianze romane di Amelia, non lontano da Narni: le ville intorno al centro, le mura (che inglobano presso Porta romana un tratto delle Mura Megalitiche del VII secolo a.C., residuo della più antica cinta muraria), la statua bronzea di Germanico venuta in luce nel 1963 (un capolavoro di bronzistica imperiale alto 2,14 metri) e le monumentali, cisterne, una spazio di grande fascino ma soprattutto di sofisticata ingegneria idraulica.

Una veduta di Spoleto con la Rocca Albornoziana e il Ponte delle Torri. Foto Barbara Antonetto

Il teatro romano di Spoleto. Foto Barbara Antonetto

L’Arco di Druso a Spoleto. Foto Barbara Antonetto

La casa romana di Spoleto. Foto Barbara Antonetto

Le Mura Megalititiche di Amelia. Foto Barbara Antonetto

Una delle cisterne romane di Amelia. Foto Barbara Antonetto
Tornando a Spoleto la visita del centro storico non può prescindere dal celebre Duomo (scenograficamente posto al termine di una scalinata), che racchiude affreschi di Pinturicchio e Filippo Lippi, né dalle splendide chiese romaniche (su tutte San Pietro extra moenia e Sant’Eufemia), ma si potrebbe concentrare sui tanti luoghi e le testimonianze del celebre Festival dei due mondi, a partire dal Teatro Caio Melisso e dal Teatro Gian Carlo Menotti dove non va tralasciata la Sala XVII settembre (giorno dell'annessione della città all’Italia unita), del 1910, con stucchi di Cesare Bazzani e un fregio di tempere su tela incollata alle pareti di Giovanni Costantini. Da quando è nato nel 1958, il Festival ha avuto una dimensione internazionale diventata elemento caratterizzante la città di Spoleto. I suoi primi 50 anni di storia sono stati indissolubilmente legati alla figura del fondatore, il maestro compositore Gian Carlo Menotti (scomparso nel 2007) che ideò una manifestazione che fosse «terreno di incontro fra due culture e due mondi artistici, quello americano e quello europeo (da qui il nome) e per celebrare le arti in tutte le loro forme; opera, musica, danza teatri e arte». Andare in cerca dei luoghi del Festival è come incontrare i grandi personaggi che lo hanno reso celebre: per citarne qualcuno Luchino Visconti, Eduardo De Filippo, Rudolf Nurejev, Carla Fracci, Thomas Schippers (le cui ceneri sono tumulate nella piazza del duomo di Spoleto, dove lui diresse molti concerti di chiusura del Festival), Romolo Valli, Ken Russell, Nino Rota, Roman Polanski, Ezra Pound, Vittorio Gassman, Arnoldo Foà, Luciano Pavarotti, Joaquin Cortes, Kathleen Battle, Dario Fo e Franca Rame, Bartabas e, in anni più recenti sotto la direzione artistica di Giorgio Ferrara, Franca Valeri, Robert Wilson, Adriana Asti, Tim Robbins, Willem Dafoe, Gérard Depardieu, Luca Ronconi, Mikhail Baryshnikov, Riccardo Muti, Fernando Botero, Eleonora Abbagnato, Luis Bacalov, Juliette Gréco, Bernard-Henri Lévy.

Il Duomo di Spoleto e, sulla sinistra, il Teatro Caio Melisso. Foto Barbara Antonetto

L’abside del Duomo di Spoleto affrescata da Filippo Lippi. Foto Barbara Antonetto

San Pietro extra moenia a Spoleto, particolare della decorazione della facciata. Foto Barbara Antonetto

Le absidi di Sant’Eufemia a Spoleto. Foto Barbara Antonetto

Interno del Teatro Caio Melisso a Spoleto. Foto Barbara Antonetto

Alcune delle celebrità che si sono esibite al Teatro Caio Melisso in occasione del Festival di Due Mondi. Foto Barbara Antonetto
Altra originale chiave di visita della città è quella delle fontane disseminate nel centro storico, come la fontana del mascherone, da cui sgorga l’acqua che scende dalla montagna attraverso l’acquedotto di epoca romana, oppure la fontana di Piazza del mercato, costruita su progetto dell’architetto romano Costantino Fiaschetti tra il 1746 e il 1748, con una scenografica facciata che ingloba il monumento celebrativo della famiglia Barberini disegnato da Carlo Maderno.
Non bisogna poi dimenticare che Spoleto è sempre stata aperta all’arte contemporanea, a partire dal 1962, quando il «Time» del 24 agosto la definì «una città piena di sculture». In quell’anno era infatti in corso una mostra assolutamente innovativa per l’epoca, a cura di Giovanni Carandente che popolò con 104 sculture di 52 tra i più importanti scultori del XX secolo le vie del centro storico, le piazze, i cortili interni e gli incroci della città nuova. La stazione ferroviaria è ancora dominata dal grande «Teodelapio» di Alexander Calder che l’artista donò alla città: fino al quel momento nessun committente aveva mai chiesto all’artista americano uno Stabile così grande da riempire una piazza, capace di inquadrare con le sue lamiere il prospetto della città. Un grande fotografo, Ugo Mulas, si trovò a documentare l’iniziativa e, e lo fece in modo appassionato: oggi abbiamo così la fortuna di poter ripercorrere quell’«esperimento» attraverso le sue immagini, che sono esposte nel Museo di Arte contemporanea di Palazzo Collicola con i bozzetti di molte sculture. La straordinarietà dell’iniziativa fu che una decina di quei 52 artisti si confrontò con i luoghi prima ancora di concepire le opere, e poi le realizzò in officine siderurgiche sparse in Italia messe a disposizione dall’Italsider, sponsor ante litteram.
Il MoMA di New York collaborò alla scelta della partecipazione americana: Alexander Calder, Herbert Ferber, Jacques Lipchitz, Seymour Lipton, James Rosati, Jason Seley e David Smith. Quest’ultimo venne invitato a Voltri per eseguire una o due sculture. Ne eseguì ventisei in trenta giorni, vennero esposte nel teatro romano. Fu la prima personale di David Smith in Europa, oggi in parte ricostruita alla National Gallery di Washington in uno spaccato di arena che ricorda la collocazione primitiva. Per capire il clima in cui il progetto della mostra prese corpo e la convinzione da parte di tutti gli artisti convocati di avere un’opportunità straordinaria vale la pena di riportare uno stralcio della lettera che David Smith scrisse a David Sylvester l’11 dicembre 1962: «All’inizio ero sopraffatto dalla generosa opportunità che mi veniva offerta. Ma mi ripresi subito. Immerso quasi a bruciapelo in un fitto lavoro, non avevo tempo per pensare. Lavoravo dodici ore al giorno, sette giorni alla settimana. Non comprendevo l’italiano, così non avevo afferrato che era stato richiesto di fare una o due sculture soltanto. Il fuoco si era acceso e ala fine del mese avevo fatto ventisei sculture. E anche alcuni grandi carri con ruote. Ero arrivato con alcuni disegni ma li abbandonai, vedendomi di fronte un mondo completamente nuovo. Smontai macchinari, usai ogni cosa che mi ispirasse tra gli oggetti che erano lì, abbandonati nell’officina… Ebbi la completa cooperazione dell’Italsider. Mi trovavo a mio perfetto agio con gli operai, malgrado la differenza di lingua. Imparai qualche parola di italiano con un piccolo Berlitz e loro un po’ d’inglese. Er felice di lavorare li, felice della confidenza con gli operai. All’interruzione pomeridiana portavamo da casa e specialità della cucina di Voltri, cozze, funghi, anguille, uccelletti. Li mangiavamo insieme scambiandoci confidenze. Fummo tutti un po’ tristi quando l’esperienza finì (…) L’Italsider mi lasciò libero di frugare in tutte le officine, di prendere tutto quello che volessi, di lavorare fuori orario. Ancor non capisco da dove provennero anta fiducia e generosità: Carandente, Menotti, il Governo italiano?». A «Sculture nella Città» parteciparono i principali scultori del momento tra cui Hans Arp, Eduardo Chillida, Leoncillo, Giacomo Manzù, Arnaldo Pomodoro, Mirko Basaldella, Beverly Pepper, Pietro Consagra, Marino Marini, Pablo Serrano, Nino Franchina, Lucio Fontana, Wessel Couzijn, Fritz Wotruba, Lynn Chadwick e tanti altri (la città ne conserva ancora oggi sei: quelle di Calder, Franchina, Pepper, Pomodoro, Consagra e Chadwick)

La fontana di Piazza del mercato a Spoleto con lo stemma Barberini. Foto Barbara Antonetto

La sala del Museo di Arte contemporanea di Palazzo Collicola a Spoleto con i bozzetti delle opere della mostra del 1962 curata da Giovanni Carandente. Foto Barbara Antonetto

La Piazza del Comune di Spoleto con la scultura «Spoleto 1962» di Nino Franchina. Foto Barbara Antonetto
Uscendo da Spoleto chi percorra le strade dell’olio alla ricerca di testimonianze dell’arte romanica sconosciute al turismo di massa ma non meno interessanti dei monumenti celebri in tutto il mondo, non può prescindere da una visita a Lugnano in Teverina, un borgo collinare con un delizioso affaccio sulla Valle del Tevere. Al fine di salvaguardare la biodiversità in agricoltura la Regione Umbria è stata una delle prime a evitare la standardizzazione delle colture e contrastare gli effetti sempre più aggressivi dei cambiamenti climatici preservando il vasto e differenziato patrimonio genetico della specie. Nell’ambito di una collaborazione tra Amministrazione pubblica, Università, centri di ricerca ed agricoltori, nel 2014 a Lugnano in Teverina è nata Olea mundi, una collezione olivicola tra le più grandi al mondo: 400 varietà su un’estensione di circa 4 ettari. Il borgo ha anche un interesse storico artistico con due punte di diamante: la Chiesa, con annesso convento, di San Francesco, costruita nel 1229, la prima sorta in Umbria dopo la morte del santo e la Collegiata edificata intorno al 1.100 con rosone in facciata e bellissimo pronao con decorazioni scolpite aggiunto nel 1230. L’interno, scandito in tre navate da colonne sormontate da capitelli con raffigurazioni tipiche dell’arte romanica, culmina in un presbiterio sopraelevato con un trittico di Nicolò Liberatore detto l’Alunno (1425-1502) delimitato da un’iconostasi con pregevoli lastre raffiguranti San Giorgio che uccide il drago e la Visitazione.
Non lontano da Lugnano in Teverina sorge Alviano, anch’esso in posizione collinare e immerso in un paesaggio caratterizzato da scenografici calanchi, un borgo dominato dal grande castello medievale che a partire dal 1455 Bartolomeo d’Alviano, capitano di ventura che fece fortuna al servizio della Repubblica Veneta, trasformò in una sontuosa dimora rinascimentale. Nel 1600 il Castello fu acquistato dai Doria Pamphilij e donna Olimpia fece affrescare la Cappella di san Francesco. Attualmente vi ha sede il Comune che, nonostante le scarse risorse di cui può disporre una comunità di 1.400 abitanti, ha già speso oltre 2 milioni di euro per il restauro dell’edificio e per la valorizzazione dei musei che vi hanno sede (il Museo della Civiltà contadina e il Museo dei capitani di ventura).

Lugnano in Teverina. Foto Barbara Antonetto

La Collegiata di Lugnano in Teverina. Foto Barbara Antonetto

La Rocca di Alviano. Foto Barbara Antonetto
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