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Lavinia Trivulzio
Leggi i suoi articoliParigi, luglio 1943. La città è occupata, oppressa, ferita. Pablo Picasso, cittadino spagnolo in una Francia sotto il tallone nazista, sceglie di restare. Non prende le armi, ma dipinge. E ogni suo quadro diventa un atto silenzioso di resistenza. Oggi, uno di questi rari testimoni del coraggio artistico riaffiora dal silenzio della storia: il prossimo 24 ottobre, la casa d’aste Lucien Paris presenterà all’Hôtel Drouot il capolavoro «Buste de femme au chapeau à fleurs», inedito da oltre ottant’anni, nella vendita intitolata emblematicamente Pablo Picasso – un chef d’œuvre retrouvé.
Datata 11 luglio 1943, l’opera emerge da un periodo tra i più intensi e cupi della biografia picassiana. Sebbene il pittore goda già allora di fama mondiale, vive a Parigi sotto l’occhio vigile della Gestapo: interrogatori, perquisizioni, persino una convocazione per il Servizio di Lavoro Obbligatorio (STO), da cui riesce a sottrarsi per miracolo. Le sue opere sono bollate come degenerate, alcune distrutte. Ma Picasso non smette di creare. Al contrario: trasforma il proprio atelier in rue des Grands-Augustins in una roccaforte intellettuale, dove il colore, la forma e la figura diventano linguaggio di resistenza interiore.
«Buste de femme au chapeau à fleurs» si colloca in questo scenario, e lo travalica. Non è una natura morta in grisaille, né una meditazione sulla morte come i teschi coevi. È un ritratto che esplode di colore. Il quadro presenta un volto femminile frantumato in campi puri di verdi acidi, rossi coagulati, blu cobalto, gialli radiosi, viola intensi. Gli occhi spalancati, le linee aggressive che modellano le guance, le narici enfatizzate, la bocca compatta e scura: tutto contribuisce a costruire una figura che non vuole rassicurare, ma affermarsi con una presenza dura, resistente, implacabile.

Pablo Picasso, «Buste de femme au chapeau à fleurs», 1943. Courtesy Lucien Paris
Il cappello che sovrasta la testa non è un vezzo decorativo, ma un elemento cardinale della composizione. Ampio, rotondo, adornato con due margherite stilizzate dai petali gialli e verdi, introduce un elemento di ordine visivo e simbolico. Come ha scritto la storica dell’arte Brigitte Léal, il cappello – emblema feticistico nell’immaginario surrealista – può essere inteso qui come una corona silenziosa, un segno di dignità femminile, un gesto di ostinata bellezza in tempi che la negano.
Dietro questo volto trasfigurato si intuisce una presenza ricorrente: Dora Maar, compagna, musa e tormento di Picasso dal 1936. Artista e intellettuale, donna dallo spirito inquieto, Dora attraversa gli anni di guerra come figura emblematica del dolore e della tensione. Nei ritratti che Picasso le dedica in quel periodo – e ne sono documentati ventotto solo nel 1943 – lei appare afflitta, frammentata, ieratica, spesso costretta nei confini rigidi di una composizione che è tanto un atto di amore quanto una lotta.
In «Buste de femme au chapeau à fleurs», Dora è decostruita, simbolo più che persona. E tuttavia la sua forza emerge. Dietro la maschera della stilizzazione, sotto le geometrie, c’è un volto che resiste, che non cede alla tragedia del tempo, ma la assorbe, la trasfigura e la rilancia sotto forma di pittura. Conservata in mani private sin dall’agosto 1944, quest’opera è rimasta invisibile al pubblico per oltre otto decenni. Mai esposta, mai messa all’asta, conosciuta solo attraverso una riproduzione in bianco e nero pubblicata da Christian Zervos nel 1962 (vol. XIII, n. 70) e da alcune foto di Brassaï, è oggi finalmente restituita alla luce, in condizioni di conservazione eccezionali. Nel mezzo dell’occupazione, Picasso dipinge. E dipinge come se ogni quadro fosse una dichiarazione. «Buste de femme au chapeau à fleurs» appare come una dichiarazione di sopravvivenza, una celebrazione della figura femminile, una denuncia muta dell’orrore.
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