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Micaela Zucconi
Leggi i suoi articoliIl sole tramonta sul mare di Beirut, con il profilo della città sullo sfondo. Siamo di fronte alla Fondazione Aïshti, il museo privato dei collezionisti libanesi Tony ed Elham Salamé, «casa» della loro raccolta di arte contemporanea, una delle più influenti al mondo (un corpus di opere, dedicate al nuovo realismo americano, è stata presentata a Palazzo Barberini, a Roma, nel 2024).
L’enorme edificio accoglie al suo interno più funzioni: museo d’arte, bookshop, boutique di lusso, ristorante e caffè, una spa, un rooftop bar e uno spazio all’aperto sul mare. Tutto progettato dal super premiato architetto britannico di origini ghanesi Sir David Adjaye, che si divide tra gli studi di Accra, Londra e New York, famoso per la sua etica progettuale e la particolare sensibilità artistica. Adyaye ha saputo far convivere le diverse esigenze e ha dato una coerenza ai due edifici del complesso avvolgendoli con uno schermo in materiale ceramico, che lascia passare la luce, aperto con una grande vetrata solo sul lato delle gallerie museali.
L’occasione per la visita è il decennale dell’istituzione, celebrato con un omaggio a 72 artiste della collezione, presenti con più di 200 opere. La raccolta nel suo complesso ne comprende più di 5mila, relative a circa 300 artisti internazionali (con un 50% di presenze femminili) tra i più significativi dal dopoguerra ad oggi, ma non manca una rappresentanza di giovani emergenti. Di ognuno Salamé acquista molte opere in modo da seguirne l’evoluzione. Racconta un gallerista di New York che, ancora agli inizi della sua carriera, Tony Salamé è apparso un bel giorno in galleria e ha acquistato non solo tutte le opere esposte, ma anche quelle a venire degli stessi artisti.
Visibile per almeno un anno, la mostra, a cura di Massimiliano Gioni e Roberta Tenconi, segna la ripresa delle attività dopo un periodo di interruzione dovuto a una congiunzione di eventi (terremoto, pandemia, esplosione del porto, conflitti). «Il titolo “Flesh Flowers” (fino a ottobre 2026) è tratto da uno dei lavori di Miriam Cahn e si riferisce a un particolare tipo di grande fiore (l’auro titano) dalla breve fioritura, che nel colore e odore ricorda la carne corrotta. Una metafora di bellezza e bruttezza, fascinazione e disgusto che porta al filo conduttore della rassegna, volto in particolare all’attenzione sul complesso rapporto tra corpo e pittura, espresso soprattutto in una combinazione di astrazione e figurativo», spiega Massimiliano Gioni.
Tra le tante artiste, di diverse generazioni, provenienza, personalità e tendenze, tra temi identitari e approcci molto personali, spiccano Etel Adnan con i suoi paesaggi, Tauba Auerbach, Cecily Brown, Miriam Cahn, Simone Fattal, Louise Fishman, Harmony Hammond, Jacqueline Humphries, Laura Owens, Carolee Schneemann, Amy Sillman, Charline von Heyl, Katja Seib, Ser Serpas, Julie Mehretu e Joan Semmel, pittrice americana femminista che, ultranovantenne, è volata da New York per l’inaugurazione. Semmel è presente con cinque opere che coprono quasi settant’anni di pittura.
Tony Salamé ha cominciato a collezionare quando era ancora all’università: «A un’asta privata sono stato conquistato da tappeti e oggetti, ma ho dovuto chiedere aiuto a mio padre per comprarli. Successivamente, a Milano, mi sono orientato verso l’arte classica, ma presto mi sono avvicinato all’Arte Povera. È stato l’inizio dell’ossessione. Acquisto in tutto il mondo e a volte vedo le opere solo una volta arrivate in sede. Sostengo anche l’arte libanese, rappresentata in questa rassegna da alcune artiste come Dala Nasser o Mounira Al Solh». Decidere di creare in Libano la fondazione è un atto di fiducia, nonostante la situazione instabile, con il preciso intento di offrire alla gente del posto un accesso alla conoscenza dell’arte contemporanea. «Voglio che tutti, anche mamme e bambini possano venire qui, entrare in contatto con l’arte, giocare e rilassarsi», aggiunge il collezionista.
Il super cosmopolita Tony Salamé, anche cittadino italiano per aver vissuto a lungo nella nostra Penisola, ha una vocazione speciale come imprenditore, oltre che come filantropo: ha portato i grandi marchi della moda in Libano, creando un vero e proprio impero. Un nuovo polo del lusso, su progetto firmato da Zaha Hadid prima della sua scomparsa, verrà completato nel corso del prossimo anno. Dall’alto del 30mo piano dell’esclusivo grattacielo che ospita la residenza privata dei Salamé, la notte di Beirut scintilla. Scompaiono alla vista gli edifici ancora oggi devastati dalla spaventosa esplosione al porto nel 2020 e quelli danneggiati da combattimenti urbani nel corso delle varie guerre. Si può immaginare una città in pace. Sul terrazzo, restaurato dopo i danni della deflagrazione, la piscina-opera d’arte di Daniel Buren. All’interno, ancora Buren, design e opere di numerosi altri artisti raccontano una volta di più la volontà della famiglia nel sostenere il loro Paese.
Elham e Tony Salamé. © Luc Castel