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Massimo Montella
Leggi i suoi articoliAllo studio negli ambienti ministeriali la «Scuola nazionale del patrimonio»
Il trasferimento del «Cratere» di Eufronio dal museo statale di Villa Gulia a Roma a quello anch’esso statale di Cerveteri, ma più ancora il ritorno dell’«Efebo» dal Museo Nazionale Romano a quello comunale di Sutri rivestono notevole importanza, anche perché motivati dal ministro con la volontà di ricondurre gli oggetti ai loro contesti storici. Sembrerebbe dunque scongiurato il rischio sempre incombente di confondere i beni culturali con l’omonimo Ministero.
Con ottima ragione, infatti, si dice che l’Italia è un «museo diffuso», giacché il patrimonio è esteso all’intero territorio della penisola e giacché la sua qualità essenziale sta nella incessante continuità e nella capillarità, nella pluralità e nella interazione delle sue manifestazioni. Poiché il suo valore non si esaurisce negli episodi ipermonumentali e macromuseali, ma inerisce specialmente alle relazioni d’insieme, le politiche di tutela e di valorizzazione non possono risolversi entro i confini delle potestà ministeriali e nell’apposizione di vincoli. Debbono piuttosto fondersi in processi integrati di sviluppo economico e sociale, che toccano in primo luogo l’urbanistica. Chiamano dunque in causa tutti i livelli istituzionali e gli enti territoriali in primo luogo, nonché il mondo della ricerca, a cominciare dalle università, e necessitano di una fattiva sinergia fra pubblico e privato, nonché dell’attiva partecipazione delle comunità. Questi obiettivi richiedono nuove, alte e molteplici professionalità interdisciplinari e transdisciplinari.
La «Scuola nazionale del patrimonio», adesso allo studio negli ambienti ministeriali, deve per l’appunto misurarsi con questa necessità. Nel progettarla l’errore da evitare è di procedere in senso inverso, cominciando dalla fine, e di farne un riservato dominio del Ministero, escludendo gli enti territoriali, e un elemento aggiuntivo e separato dal sistema universitario. L’unico percorso corretto implica di partire dalla definizione sia dei vari profili professionali, specificando esattamente per ciascuno le abilità occorrenti, sia dei correlati percorsi formativi.
Ci si potrà giovare per questo delle tante indicazioni prodotte da più commissioni ministeriali almeno nel 2000 e nel 2008, dalle Regioni insieme al Ministero del Lavoro nel 2008, dall’Icom Italia anche recentemente. Quindi occorrerà concertare con Regioni e Comuni queste decisioni e le connesse modalità di reclutamento, per farne parte integrante di standard minimi di qualità da osservare a ogni livello di governo.
Infine si tratterà di convenire con il Ministero dell’Università una conseguente organica riforma dei contenuti disciplinari delle lauree triennali e specialistiche e dei dottorati e delle scuole di specializzazione, delle quali converrà superare la settorialità disciplinare.
Si avrebbe allora una decisiva iniezione di qualità e di efficacia nel sistema universitario. Si otterrebbe la indispensabile riqualificazione della formazione professionale e la forte compressione dei formidabili sprechi che fin qui ha comportato. Si porrebbe rimedio all’intollerabile scollamento attuale fra formazione e lavoro. I livelli di qualità nell’esercizio delle funzioni di tutela e di valorizzazione registrerebbero un deciso innalzamento e l’indispensabile omogeneizzazione in ogni area del Paese.
Diversamente si avranno uno spreco aggiuntivo di risorse pubbliche e una frammentazione ulteriore del «sistema Paese», con l’effetto di aumentare tutte le criticità attuali. E, poiché le novità auspicate andrebbero a regime solo fra qualche anno, all’ottima decisione di procedere prossimamente all’immissione di 500 figure tecnico-scientifiche negli organici del Mibact dovrà fare seguito un reclutamento continuo e progressivo anche nelle amministrazioni locali, sulla base di un’accorta rilevazione delle esigenze dei diversi territori.