Andrea Bruciati
Leggi i suoi articoliNelle Marche esiste una realtà diffusa degna di essere riconosciuta come patrimonio mondiale dell’umanità e per la quale spero verrà predisposta, in futuro, una mappa di itinerari: si tratta dei teatri storici disseminati per l’intero territorio. Il percorrere questi tracciati, ancora solo ipotizzabili, può rappresentare un modello inclusivo e sostenibile per far parlare l’anima di una regione. La proposta di sottolineare l’importanza dei teatri storici delle Marche, inoltre, vanta un’ulteriore peculiarità per il visitatore: quella di caratterizzarsi per la loro duplice natura, di patrimonio sia materiale che immateriale, un vero e proprio ecosistema.
Le Marche parteciparono infatti all’evoluzione del teatro italiano e alla definizione degli spazi per la sua rappresentazione, e lo fecero con un contributo particolarmente significativo, se non determinante, per quanto concerne l’ambito di indagine che copre il XVIII e XIX secolo. La civiltà teatrale che, nelle sue svariate forme di fruizione e di produzione, si espanse dai borghi ai centri più importanti in modo diffuso fu indubbiamente un fenomeno di «immagine sociale» senza pari per estensione e conformazione. Si tratta infatti di una rete capillare particolarmente omogenea per la sua denotazione e funzionalità, qualità che ne fanno un unicum assoluto.
La consapevolezza di tale patrimonio si è rinnovata agli inizi del millennio, quando la Regione sostenne un vero e proprio rilancio di questa piattaforma grazie a un lavoro certosino di catalogazione che ha permesso di mappare, conoscere e restaurare tutti i teatri e i rispettivi materiali artistici per garantirne la graduale riapertura. Non si tratta però solo di un progetto architettonico o storico artistico, dal mero valore estetico: il teatro è, per questi territori, vera e propria autorappresentazione simbolica di ogni città, cittadina, paese e borgo, cioè specchio antropologico fedele della comunità che si riflette in esso. Accanto ai grandi teatri municipali ci sono così quelli medio piccoli dalla forte valenza artistica, fino a giungere ai preziosissimi gioielli per pochi utenti ma altrettanto indispensabili, in quanto aggregatori attivi della vita culturale.
Questo senso di appartenenza attraverso il teatro è pertanto un collante identitario fortissimo e una dimensione sociale condivisa: vettore culturale alla portata di tutti e che si alimenta della stessa comunità a cui si rivolge. A teatro lo spettatore è soggetto «attivo». Da un punto di vista turistico inoltre questa rete non rappresenterebbe solo un attrattore stagionale, per un soggiorno mordi e fuggi, ma potrebbe costituire un volano turistico ben oltre l’estate e i grandi eventi all’aperto per un soggiorno itinerante e «a misura d’uomo».
La designazione di Pesaro Capitale italiana della Cultura 2024 è un buon motivo per far partire il percorso dalla patria di Gioachino Rossini. Capoluogo che possiede la cultura operistica nel sangue, «Città creativa della musica» per l’Unesco grazie all’importantissimo lavoro portato avanti con il Rossini Opera Festival e il suo Conservatorio, Pesaro vanta una delle Pinacoteche più interessanti dell’Italia centrale dove, accanto alla celebre «Pala dell’Incoronazione della Vergine» di Giovanni Bellini e alla «Caduta dei Giganti» di Guido Reni, si annoverano le famose maioliche cinquecentesche provenienti dai maggiori centri rinascimentali della provincia. Tornando al Teatro Rossini, questo viene inaugurato come Teatro del Sole nel 1637, durante il pontificato di Urbano VIII che concede le vecchie scuderie ducali costruite da Federico Ubaldo Della Rovere. L’edificio deve una vera e propria ricostruzione all’architetto Pietro Ghinelli tra il 1816 e il 1818, anno in cui è nuovamente inaugurato con una eccezionale rappresentazione de «La gazza ladra» diretta dallo stesso Rossini, già celebre anche se appena ventisettenne.
L’itinerario prosegue con un’altra perla, la vicina città romana di Fano e il suo celebre Teatro della Fortuna, eretto fra il 1665 e il 1677, opera del più famoso fra gli scenografi e scenotecnici del Barocco, il fanese Giacomo Torelli. L’attuale edificio viene costruito invece fra il 1845 e il 1863 ed è giudicato il capolavoro dell’architetto modenese Luigi Poletti per la perfezione raggiunta nelle forme architettoniche e l’armonia tra masse e linee. Imponente e severo, lungo il perimetro a ferro di cavallo della platea si trova l’alto basamento anfiteatrale che regge la sporgenza del primo ordine di palchi (21), ampia e decorata, fra palco e palco, da piccole sfingi alate.
Percorrendo da qui l’antica via Flaminia e addentrandoci verso l’Appennino, giungiamo all’elegante Cagli con il suo Teatro Comunale costruito fra il 1870 e il 1878. Qui si impone lo stile eclettico e il superamento di ogni nostalgia neoclassica: la sala, armoniosa nelle sue proporzioni, dispone di 50 palchi disposti su tre ordini e sovrastante loggione a balconata aperta. La sala principale è tutto un susseguirsi di stucchi dorati, mensole, volute, sfingi, cornici, fregi e intagli, mentre il palcoscenico presenta ancora oggi i vecchi dispositivi di manovra come i carrelli per lo spostamento delle quinte, carrucole e tiri, una macchina per le luci a soluzione salina, un sipario comodino con apertura per l’uscita degli artisti e ben nove scene complete di fondali e quinte costituenti il corredo originale.
Scendendo lungo la dorsale appenninica, sulla linea della vecchia ferrovia, si giunge alla celebre Fabriano e alla centralissima e medievale Fontana Sturinalto. Oltre allo straordinario Museo della Carta, troviamo qui il Teatro Gentile da Fabriano del 1884, famoso per l’eccellente acustica ed eleganza. L’interno e il sipario sono impreziositi dai dipinti di Luigi Serra (1880), mentre le ornamentazioni a chiaroscuro appartengono al bolognese Luigi Samoggia. L’ingresso del teatro è in stile neoclassico diviso in due piani: la parte inferiore presenta un portico con tre arcate ornate da un ordine di paraste doriche, quella superiore una loggia chiusa da vetrate e paraste d’ordine ionico. Il foyer è a pianta rettangolare mentre la platea ha pianta a ferro di cavallo con quattro ordini per complessivi 91 palchi.
Proseguendo per la valle dell’Esino si giunge a Jesi, città natale di Federico II, che vanta a Palazzo Pianetti cinque straordinarie opere di Lorenzo Lotto e uno dei teatri più attivi del sistema regionale, il Teatro G.B. Pergolesi (1798). Qualificato dal 1968 come uno dei 29 «Teatri di tradizione» italiani in quanto istituzione fortemente radicata nel territorio, certificato a livello nazionale per una produzione lirica di grande prestigio e qualità artistica, promuove e coordina le attività lirico musicali in ambito provinciale. Il Pergolesi rappresenta di certo l’anima dei teatri marchigiani sia per la continuità dell’attività di produzione lirica e per la tutela della tradizione musicale, sia per la valorizzazione di linguaggi innovativi nonché per la promozione di giovani artisti. Costituisce un vero volano e ciò che si intende per «iconosfera culturale» che attiva la società in modo creativo, sostenibile e inclusivo.
Abbandonando le dolci colline del Verdicchio si giunge così a Macerata, uno dei luoghi di culto della stagione lirica in Italia grazie allo Sferisterio (1823) e al Teatro Lauro Rossi (1774). Il primo presenta una struttura teatrale unica nel suo genere architettonico: voluto dall’iniziativa di Cento Consorti, fu progettato nel 1823 dall’architetto neoclassico Ireneo Aleandri, per il gioco della palla al bracciale. Solo nel 1921 venne trasformato in un teatro lirico: l’unico a cielo aperto con una struttura nel contempo monumentale e intima che, con i suoi 2.500 posti, 104 palchi e il palcoscenico più lungo d’Europa, garantisce una perfetta visibilità e un’eccellente acustica.
Proseguendo di contro verso la costa e in prossimità del litorale si giunge alla Sala del Mappamondo e alla «Crocifissione» di Vittore Crivelli nell’industriosa Fermo, dove si evidenzia il Teatro dell’Aquila (1790), uno fra gli scrigni architettonici dell’area, accanto al Teatro Luigi Mercantini (Ripatransone) e al Teatro del Serpente Aureo (Offida). Venne inaugurato nel 1790, progettato dall’architetto camerale Cosimo Morelli di Imola (1729-1812), con sala ovale e scena a tre bocche. Pregevole è il dipinto sul soffitto, realizzato a tempera, opera di Luigi Cochetti (1802-84) mentre al centro della sala è posto un grande lampadario a 56 bracci in ferro dorato e foglie lignee, alimentato originariamente a carburo, ordinato a Parigi nel 1830. Il teatro, che ha vissuto i fasti ottocenteschi con opere liriche e di prosa in contemporanea con le principali capitali europee e con la presenza dei più grandi artisti internazionali, è tornato a essere al centro di un’ampia e prestigiosa attività artistica grazie a eccellenti interventi di restauro che nel 1997 gli hanno restituito l’antico splendore e ne hanno permesso la riapertura al pubblico dopo diversi anni di chiusura e abbandono.
Ultima tappa e gioiello della Regione è Ascoli Piceno con il Teatro Ventidio Basso (1839), situato nelle immediate vicinanze di piazza del Popolo. La prima struttura risale al 1579, ma nel 1839 viene affidato il progetto del nuovo teatro a Ireneo Aleandri, già ideatore dello Sferisterio di Macerata e del Teatro di Spoleto. La facciata neoclassica, in travertino rifinito, presenta un colonnato centrale composto da sei colonne ioniche in pietra, aggiunte da Gabriele Gabrielli nel 1851, che formano un pronao su cui s’aprono tre porte che danno accesso all’atrio (arricchito da nicchie e statue, opera di Giorgio ed Emidio Paci) e da un soffitto a cassettoni in stucco.
Al secondo piano, due finestre archivoltate e lunettate sono in corrispondenza delle due lunette del piano terra; al centro, su un colonnato d’ordine corinzio, tamponato, fanno bella mostra tre luci neoclassiche. Una seconda trabeazione, su cui si leva un timpano triangolare di coronamento, completa l’elegante ma austera costruzione. Al piano superiore c’è il foyer, impreziosito da decorazioni con stucchi in oro, anch’esse opera di Giorgio ed Emidio Paci, mentre altre decorazioni, come il sipario raffigurante «Il trionfo di Ventidio Basso sui Parti», i quadri di mezzo, le muse, le medaglie, sono da ascrivere all’anconetano Vincenzo Podesti.
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Dal 2017 l’autore è direttore dell’Istituto autonomo Villa Adriana e Villa d’Este di Tivoli (Rm)