Wilfredo Prieto, «Doce muertes», 2024, El Fanguito, XV Biennale dell’Avana (particolare)

Cortesia dell’artista

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Wilfredo Prieto, «Doce muertes», 2024, El Fanguito, XV Biennale dell’Avana (particolare)

Cortesia dell’artista

Wilfredo Prieto: «Al contrario di Duchamp restituisco l’oggetto al suo spazio originario»

Nella 15ma Biennale dell’Avana l’artista cubano ha disseminato le sue opere nel quartiere El Fanguito integrandole nel tessuto sociale e urbano del luogo

In occasione della 15ma edizione della Biennale dell’Avana (fino al 28 febbraio), l’artista Wilfredo Prieto (Cuba, 1978) ha presentato il suo intervento intitolato «Fanguito», che si estende ben oltre i confini tradizionali di una mostra d’arte. Anziché limitarsi a musei o gallerie, le sue opere sono disseminate in un quartiere, integrandosi nel tessuto sociale e urbano del luogo. In questa intervista, Prieto riflette sull’evoluzione del suo approccio artistico, che sfida le convenzioni del contesto espositivo e mette in discussione la separazione tra l’arte e la vita quotidiana. Parla delle sue scelte artistiche, delle interazioni con il pubblico e dei nuovi significati che le sue opere acquisiscono quando vengono immerse nel contesto locale e comunitario.

La 15ma edizione della Biennale dell’Avana si estende nei musei, nelle gallerie e negli spazi pubblici della città, ma nel tuo caso va oltre. Hai presentato un intervento che si estende a tutto un quartiere, El Fanguito, da cui il nome del progetto, un territorio che il tuo lavoro abbraccia nella sua interezza. Le opere sono situate nelle case, per le strade, ovunque, e riflettono il tuo impulso a confrontarti sempre di più con il contesto. Com’è nata l’idea di espandere così tanto il quadro della tua presenza artistica?
Questa estensione, questa espansione, è una conseguenza del lavoro. In effetti, sto lavorando da tempo a progetti che richiedono un modo diverso di fare le cose. Ad esempio, il progetto «Infinite Journey», che sto realizzando nella mia città natale, richiede una responsabilità sociale completamente diversa perché coinvolge uno spazio vasto in cui si colloca il mio lavoro. Di solito si è abituati a pensare che i musei o gli spazi culturali abbiano una responsabilità solo per la creazione e l’esecuzione del lavoro, ma mai per il contesto, perché quello è sempre gestito dalle istituzioni. In questo caso, l’opera, la scultura, diventa anche il proprio museo, dove ha spettatori e dove è responsabile del suo ambiente, degli abitanti. Pertanto, ha anche un’interazione sociale, culturale ed economica; abbiamo dovuto fare uno studio piuttosto ampio, non solo con i locali e la storia del posto, ma anche un lavoro di restauro ambientale. In questo senso, ci sono interventi significativi di riforestazione dell’area e di rimozione di piante invasive, cercando di creare una sorta di economia sostenibile. Questi lavori entrano in un ambito molto più sociale rispetto alle abitudini. Poi ci sono anche altre mostre, come «Walking the Dog» e «Eating Shit», che sono opere nate da incidenti, da passeggiate, da movimenti. La mostra alla galleria Kurimanzutto, «You can’t make a revolution with silk gloves», ha anche un precedente di intervento dentro uno spazio; si trattava più di capire le crepe, gli ingressi, i vicini e gli angoli dello spazio piuttosto che fare una mostra in un luogo per esporre arte. Questo cambia completamente la prospettiva.

Vedo naturalmente l’eredità di Marcel Duchamp come punto di partenza, lavorando con oggetti semplici e quotidiani, scelti, trovati, recuperati, ma cambiando il contesto si crea uno slittamento che riporta il discorso estetico nella vita: per esempio, dal «white cube» o dal museo al quartiere, dove i locali diventano mediatori.
Credo che molte opere siano nate da questo punto. «A light in the distance» è un intervento che crea una nuova stella nel cielo, coinvolgendo lo spazio reale, che deriva anche da un progetto che ho realizzato nel 1999 chiamato «Op Art». Anche questo prevedeva l’idea di intervenire in un giardino, con alberi di mango in una foresta, e farli maturare attraverso la pittura. Era un modo per liberarsi dallo spazio schematico. In questo caso, si tratta di un processo molto più consapevole: si tratta di restituire l’oggetto reale al suo spazio originario. È quasi il processo opposto di Marcel Duchamp, che prendeva oggetti trovati e li spostava in un luogo; io invece lo restituisco al luogo, pronto per essere trovato, giusto? Quindi, penso che sia un progetto in cui le opere fanno parte di un ambiente, di una società, di un luogo. Entrano nell’intimità delle persone, anche nello spazio pubblico e collettivo; ma soprattutto, i mediatori sono i locali, no? E non hanno necessariamente un’interazione diretta con le opere, ma piuttosto un’interazione quasi come quella di un custode in un museo, che non deve necessariamente essere sulla stessa lunghezza d’onda. Può essere quasi una contraddizione estetica o una contraddizione di contenuto.

Wilfredo Prieto, «Futuro incierto», 2024, El Fanguito, XV Biennale dell’Avana. Cortesia dell’artista

Wilfredo Prieto, «Seis naranjas y un robot», 2024, El Fanguito, XV Biennale dell’Avana. Cortesia dell’artista

Nel caso di Duchamp, il readymade acquisiva l’aura concettuale di un’opera d’arte dalla scelta dell’artista e dal contesto. Quello che stiamo dicendo è che tu vuoi chiaramente andare oltre a questo, o anche tornare indietro. Ma nel mancare il quadro artistico di un contesto espositivo, pensi che gli oggetti possano parlare da soli come opere d’arte? I titolari delle opere, come mediatori o custodi, sono in grado di ricreare quell’aura che rende l’intervento un’opera, o forse desideri annullare la distanza tra l’opera d’arte e la sua percezione come oggetto?
Mi sono sempre trovato in disaccordo con gli elementi che gerarchizzano l’opera d’arte, come, ad esempio, un piedistallo, una cornice che segna un’area, che colloca lo spazio dell’arte, o un museo con le sue pareti bianche. Sono sempre stato contrario a questo tipo di elementi che creano l’aura attorno alle opere. Credo invece in quell’unione simbolica che l’oggetto fornisce, che l’azione nella vita reale comunica. Non penso che si debba fare uno sforzo, che per me risulta quasi come un’esagerazione: pulire lo spazio. Anche se ci sono momenti in cui questo viene fatto, rendendo quella comunicazione attiva, in questo caso, ciò che mi interessa è quasi il contrario: sporcare la parete bianca, riempirla di funzionalità, con elementi reali, oggettivi, che talvolta possano anche ostacolare la comunicazione stessa. Penso che sarebbe una fusione tra l’origine iniziale e nuovi componenti, o nuovi modi di comprendere quell’opera. Non è la stessa cosa avere una pozzanghera di acqua santa nel contesto di una galleria, in una chiesa o in una città dove le macchine ci passano sopra. Credo che ogni opera connoti in modo diverso. Penso che questo diventi anche un esperimento per me, ancora più rigoroso in termini di comprensione dell’arte come camuffamento con il suo contesto, facendo piuttosto un’operazione di lettura diretta degli elementi quotidiani, senza alterare ciò che sono, anche se presentano quella contraddizione. Ma credo in questa nuova collocazione, che ovviamente fornisce una nuova lettura, una nuova visione di sé, non solo perché cambiano in una nuova epoca in cui vengono reinterpretate, ma anche in un contesto originale.

Come hanno reagito i cittadini finora: ora che il progetto volge al termine, come credi siano stati i rapporti che hai creato con i visitatori, i locali e il tuo lavoro? 
Non sono a conoscenza della relazione del pubblico con le opere, una volta esposte. Penso che si tratti di una relazione molto diretta che le opere hanno con lo spettatore. Pertanto, lì non interferisco. Tuttavia, qui non vedo solo la relazione dello spettatore con l’opera, ma anche del contesto con l’opera, dove quello spettatore è parte di quel contesto, com’è successo con l’opera «Egg and 8 Ball», dove la persona della sua casa ha tirato fuori le opere che aveva in casa, i suoi dipinti, e le ha messe intorno all’opera. Era un modo per riconsiderare questo di nuovo nel mondo dell’arte, a ciò che è considerato arte, alla pittura, alla scultura; stava addolcendo un’opera. Per me questa è una maniera di percepire che è una mostra viva, che le opere assumono una nuova formulazione, sono riformulate. E penso che la mia felicità sia stata durante l’inaugurazione, quando ho guardato di sfuggita e ho visto che un cane stava mangiando una porzione di «Lemonade with two pairs of balls». Credo che quello fosse davvero ciò che mi stava dicendo; questo sta interagendo, questo fa parte di quell’ambiente, le opere sono ora qualcosa d’altro.

Wilfredo Prieto, «Sin títuo (Grúa)», 2024, El Fanguito, XV Biennale dell’Avana. Cortesia dell’artista

Wilfredo Prieto, «El último maní al final del cucurucho», 2024, El Fanguito, XV Biennale dell’Avana. Cortesia dell’artista

Edoardo De Cobelli, 25 febbraio 2025 | © Riproduzione riservata

Wilfredo Prieto: «Al contrario di Duchamp restituisco l’oggetto al suo spazio originario» | Edoardo De Cobelli

Wilfredo Prieto: «Al contrario di Duchamp restituisco l’oggetto al suo spazio originario» | Edoardo De Cobelli