Francesca Petretto
Leggi i suoi articoliL’attesa è durata a lungo, sette anni di chiusura per un complesso lavoro di restauro portato a termine da David Chipperfield Architects. Ma ne è valsa la pena: l’iconica Neue Nationalgalerie, opera di uno dei quattro maestri dell’architettura moderna, Ludwig Mies van der Rohe, ha riaperto al pubblico il 22 agosto.
L’edificio che Mies costruì negli anni 1965-68, incaricato dal Senato di Berlino, è l’unico dei suoi progetti realizzati nella Germania del dopoguerra: ultimo direttore del Bauhaus fondato da Walter Gropius a Weimar nel 1919, Mies era emigrato da tempo negli Stati Uniti e non sembrava intenzionato a rientrare in patria dopo la chiusura dell’ultima sede berlinese e il suo personale fallimento in quella vicenda. Tradendo ogni aspettativa, però, vi era tornato per erigere una pietra miliare dell’architettura mondiale.
Dopo quasi 50 anni di ininterrotta attività, nel 2014 si era reso necessario chiudere il museo: già due anni prima era stato incaricato di pianificarne e realizzarne il progetto conservativo lo studio berlinese dell’archistar inglese sir David Chipperfield, specializzato in interventi su edifici culturali e già apprezzato in città per aver restaurato il Neues Museum.
L’edificio che il suo team berlinese ha curato ha oggi nuovi elementi strutturali in vetro e cemento, nuovi rivestimenti e moderni impianti, igienici e di protezione. A fine aprile aveva avuto luogo (in diretta streaming mondiale) la cerimonia ufficiale della consegna delle chiavi, presente la ministra alla Cultura, Monika Grütters.
Per il solo completamento strutturale della sala espositiva superiore sono stati installati 1.600 metri quadrati di vetri nuovi e 2.500 metri quadrati di lastre di granito naturale. Anche gli esterni sono stati ripuliti, rimettendo in situ le leggendarie sculture di Alexander Calder, oggetto di una delle tre mostre della riapertura insieme alla collettiva «The Art of Society, 1900-1945» sulla collezione di casa e all’attesissima personale dell’artista italiana Rosa Barba, «In a Perpetual Now».
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