Anna Imponente
Leggi i suoi articoliLa monumentale installazione della «Venere degli stracci» di Michelangelo Pistoletto, emblema della statuaria postmoderna in vetroresina, finita miseramente nel fuoco ieri in piazza Municipio a Napoli, ha unito nell’ambito dell’Arte povera l’arco di una ricerca non imprigionata in una sola poetica.
Al prototipo in cemento ricoperto di mica del 1967, di dimensioni prossime alla statua originale classica, esposta alla Galleria Nazionale di Arte Moderna di Roma nella antologica del 1990, faceva eco all’esterno tra le colonne binate una pittoresca elevazione di stracci. Da rimpinguare ogni tanto, furtivamente sottratti di notte da qualche balordo senza tetto.
La casuale osmosi con il mondo degli emarginati richiamava il clima politico culturale di un’altra epoca in cui le azioni teatrali dello Zoo orchestrate dalla regia di Pistoletto rovesciando valori repressivi si compenetravano in una fisicità vitale con l’ambiente, metafora del piacere di un gioco al di là delle regole. Gli spettacoli identificavano una comunità di disperati, straccioni appunto, rifiuti della società, che prendevano la «vita come io la amo. Tutto per oggi, niente per ieri, niente per domani», come Francis Picabia aveva dichiarato nel programma di una coinvolgente serata parigina Dada.
La «Venere degli stracci» resta l’opera iconica che meglio prefigura la sintesi compiuta dall’artista filosofo con il fulgido progetto racchiuso nel segno simbolico dalla geometria sinuosa in espansione creativa, il «Terzo Paradiso». La duplice versione della Venere Callipigia o «Afrodite dalle belle natiche» per appellativo, rappresenta la perfezione formale gioiosa nell’arte greco-romana, il tempo della sensualità pagana in cui gli «esseri umani erano totalmente integrati nella natura». Venus affonda il volto negli stracci, residuo di mascherature spettacolari, di bisogni e desideri «artificiali» in cui nel secondo paradiso le nostre esistenze sono immerse. Il terzo è la connessione tra natura e artificio, la compenetrazione armonica di antinomie già racchiuse in sintesi superba nella «Venere degli stracci» con un percorso di oltre cinquant’anni.
Il legame tra passato, classicità atemporale e i travestimenti in cui realizziamo la nostra soggettività nella continua modificazione dell’esistenza hanno connotato l’ideale giardino protetto di piazza Municipio che, con il gigantismo dell’installazione, non si sentiva costretta o modificata, piuttosto libera di unire una comunità variegata di spettatori protagonisti. La strategia era fissare la dimensione di ciò che è definitivo e happening.
Il fosco atto vandalico riporta a «L’orchestra di stracci» (1968) come se per i mucchi di stoffe multicolori e al centro pentole a pressione simili a crateri ribollenti non fosse stato previsto il calcolo dell’incidente di un’eruzione fuori controllo.
L’abate Melchiorre Missirini, biografo di Antonio Canova che esponendo le opere monumentali all’empatia sentimentale della gente comune lasciava traccia di modernità, bruciò alla fine degli anni Venti dell’Ottocento le stampe con i modelli ritenuti moralmente sconvenienti. Un atto distruttivo per quella che gli era sembrata una giusta causa, e del tutto insensato per la «Venere degli stracci», può accendere di nuova comprensione e grandiosità la scultura e i suoi autori, allora come oggi.
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