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Gijs van Hensbergen
Leggi i suoi articoliNella prima settimana di gennaio del 1937, sei mesi dopo l’inizio della guerra civile spagnola, Josep Renau, il giovane e dinamico direttore delle Belle Arti della Spagna repubblicana, si rivolse a Picasso per commissionargli una grande opera d’arte per il padiglione della Spagna repubblicana alla successiva edizione dell’Exposition Internationale des Arts di Parigi, dove avrebbe occupato il posto d’onore. Essendo l’artista più famoso del mondo e direttore «in absentia» del Museo del Prado con uno stipendio di 15mila pesetas all’anno, Picasso fu convinto a realizzare una potente opera di propaganda che evidenziasse gli orrori della guerra civile spagnola.
Lo storico dell’arte Miguel Cabañas Bravo racconta che Renau trovò Picasso in un bar di Parigi in compagnia di amici. Renau si rese conto di avere un abbigliamento troppo formale e prima di entrare nel bar per cercare di convincere l’artista ad aiutarlo si tolse la giacca e buttò la cravatta in un cestino. In un primo momento Picasso si mostrò restio ma, qualche giorno dopo, il comitato organizzatore, che tra i suoi membri annoverava l’architetto Josep Lluís Sert, progettista del padiglione, lo persuase ad accettare l’incarico. Prima della fine di giugno, Picasso mantenne la promessa con il capolavoro «Guernica». Il fatto che Picasso sia riuscito a consegnare l’opera in tempo ha del miracoloso. Il fatto che abbia prodotto la più potente e iconica immagine del XX secolo è fuori discussione.
Dopo aver ricevuto l’incarico, per tre mesi e mezzo Picasso non aveva fatto nulla, era rimasto come impietrito. Solo dopo una visita al padiglione spagnolo trovò finalmente la forza di reagire. Il 19 aprile, con un rapido schizzo, si cimentò con la complessità dell’impresa. L’opera di Picasso sarebbe stata esposta in uno spazio di passaggio, sul muro perimetrale di un porticato di ingresso, né dentro né fuori, attiguo al ristorante e dirimpetto al teatro. Sarebbe stata la prima e l’ultima immagine che i visitatori avrebbero visto e memorizzato di un padiglione pensato come una installazione dinamica e chiassosa in cui si mescolavano teatro, collage fotografici, artigianato, poesia, propaganda e danza.
Giudicato quasi sempre dai critici come un tentativo mal riuscito, il disegno di Picasso anticipa la tensione spaziale che apparirà nel dipinto definitivo. L’artista, però, era ancora ben lungi dal trovare il soggetto adatto. C’erano quasi 27 metri quadrati di vuoto da riempire. La tela lo aspettava nel suo nuovo studio di rue des Grands Augustins, frequentato dalla sua amante Dora Maar e usato dai fratelli Labalette, che lavoravano nel padiglione spagnolo, come deposito per gli attrezzi di cantiere. Al primo piano, nel vecchio granaio, c’era a malapena lo spazio per incastrare a forza la tela in un angolino. In attesa di una di quelle improvvisazioni dell’ultimo minuto che erano tipiche del genio spagnolo, un assistente aveva avuto tutto il tempo per preparare scrupolosamente il supporto.
Quando nel 1981 «Guernica» fu trasportata da New York a Madrid, José María Cabrera e María del Carmen Garrido la esaminarono al microscopio. Appurarono così che la tela di «Guernica» era di iuta grezza, preparata con una tecnica deliberatamente antiquata volta a creare una luminosità da vetrata a piombo, senza riflettere la luce dell’ambiente. Sovrapponendo strati di imprimitura bianco piombo, uno strato mescolato con grafite, Picasso aveva creato le qualità riflettenti del rivestimento posteriore di uno specchio che, coperto con una sottile pellicola di bianco piombo e vetro finemente macinato, non differiva molto dallo smalto blu cobalto utilizzato da Rembrandt. Una preparazione che conferiva alla tela ancora in attesa del soggetto un’aura speciale.
Il 26 aprile, nel giro di tre ore, la Legione Condor tedesca rase completamente al suolo la città basca di Gernika in una terrificante dimostrazione di «Blitzkrieg», la tattica del bombardamento a tappeto. Secondo Xabier Irujo, condirettore del Centro per gli Studi Baschi all’Università del Nevada negli Stati Uniti, la distruzione di Gernika era stata pianificata come un tardivo regalo di compleanno di Göring a Hitler, orchestrato come un wagneriano cerchio di fuoco. Picasso aveva finalmente trovato il soggetto per il suo dipinto.
La genesi, l’evoluzione e l’ispirazione del capolavoro di Picasso sono ancora oggetto di dibattiti, così come lo è l’impresa di interpretare la complessa, gigantesca tela. La ricerca storico artistica ha trovato potenziali fonti di ispirazione per «Guernica» in una miriade di discipline, dalla scultura, alla pittura, alla stampa, alla fotografia, al cinema, alla tragedia greca, alla mitologia e al teatro. Lo storico Martin Minchom ha anche sostenuto convincentemente l’importanza del reportage contemporaneo. L’8 gennaio 1937 furono pubblicati, finalmente senza censure, gli articoli in cui il giornalista di «Paris-Soir» Louis Delaprée descriveva le atrocità dei bombardamenti di Franco su Madrid. La tragica fine di Delaprée, morto poche settimane prima su un aereo abbattuto mentre era in volo tra Madrid e Parigi, era diventata un caso. Il suo materiale era raccapricciante e di un realismo straziante; in una scena, Delaprée descriveva una donna in agonia che urlava sulla Gran Vía di Madrid con un bambino morto ancora attaccato al suo seno straziato. Una descrizione impossibile da dimenticare.
Negli anni, dopo l’uscita del mio libro Guernica. Biografia di un’icona del XX secolo (pubblicato in Italia da il Saggiatore nel 2006, Ndr), sono comparse nuove possibili fonti e interpretazioni per l’opera di Picasso. Vengono subito in mente i fregi zoomorfi del palazzo di Dario il Grande a Persepoli, V secolo a.C., nell’odierno Iran, scoperti negli anni Trenta, lo stesso periodo in cui in Picasso cresceva l’attrazione per il Minotauro. Il fregio con leone e cinghiale sulla scalinata dell’apadana e la lotta tra uomo e animale dipinta sui muri dell’harem di Serse sicuramente dovevano avere attirato l’attenzione dell’artista che rielaborava in modo ossessivo miti e rituali funebri antichi.
La fonte di ispirazione forse più ovvia nell’arte classica è il sarcofago del III secolo d.C. raffigurante la caccia al cinghiale calidonio nel Museo Capitolino che potrebbe avere suscitato l’interesse di Picasso durante la sua visita a Roma nel 1917 (con i Ballets Russes di Diaghilev), così come in precedenza aveva profondamente colpito Flaxman e Rubens. Al centro della scena, Meleagro e Atalanta, in piedi spalla a spalla, sono pronti all’attacco del mostruoso cinghiale, raffigurato in un guazzabuglio di membra, cavalli imbizzarriti e cani feroci. L’insieme visivo non differisce molto dai primi tentativi di Picasso di risolvere le complessità spaziali di «Guernica», come si evince dalle fotografie di Dora Maar.
Energia grafica
A Roma di sicurò Picasso ammirò i mosaici di Palazzo Farnese raffiguranti uomini e cavalli impegnati negli esercizi equestri; ricordavano tanto le «corridas de recortes» (di ascendenza minoica) della sua infanzia e ancora praticate nella Spagna contemporanea. Migliaia di tessere bianche e nere disposte minuziosamente, con il risultato di creare uno sfondo che sprizza energia grafica. Altrettanto stimolante è la probabilità che Picasso abbia studiato le sculture mitriache raffiguranti la tauroctonia, il sacrificio del toro: il migliore esempio delle quali, guarda caso, è esposto al Museo Archeologico di Cordova, in Andalusia, la regione natale di Picasso.
Non si cita però mai l’opera di uno degli artisti preferiti di Picasso, Henri Rousseau. Un suo dipinto del 1894, «La Guerra», conservato al Musée d’Orsay, ritrae una valchiria dalla folta capigliatura scomposta che in sella a un cavallo da pantomima galoppa su un mucchio di cadaveri. È facile immaginarsi Picasso, con il suo spiccato humour nero spagnolo e la sua passione per il morboso (nel senso sia di gusto per il macabro sia di attrazione sessuale), che scoppia a ridere davanti alla capelluta a cavalcioni, mentre tra sé e sé ammira Rousseau per il suo coraggioso abbandonarsi allo stile primitivo.
Mi sono convinto che la fonte d’ispirazione nascosta di Picasso per «Guernica» sia stata, quasi certamente, la potente «Morte di Ippolito» di Rubens (1611-13) al Fitzwilliam Museum di Cambridge, una combinazione perfetta di mito, guerra e tensione sessuale. C’è un problema però: fino al 1951 il dipinto è rimasto a Woburn Abbey nella collezione privata del duca di Bedford. Picasso non lo vide mai, per quanto sia possibile che abbia visto la stampa d’après Rubens di fine Settecento di Richard Earlom, che tra l’altro, opportunamente, è in bianco e nero.
Mentre mi sforzavo di «capire» «Guernica», l’artista inglese Luke Caulfield mi ha dato un suggerimento affascinate e del tutto plausibile. Temendo il bombardamento del Prado, la maggior parte dei grandi capolavori erano stati riposti in casse nello scantinato, pronti per il trasporto in camion verso la relativa sicurezza di Valencia. Le sculture di maggiori dimensioni, difficili da spostare, erano state protette con montagne di sacchi di sabbia. Miracolosamente, quasi nulla venne danneggiato, nonostante il Prado abbia subito numerosi attacchi diretti. Il 16 novembre 1936, però, ancora una volta il Prado venne deliberatamente preso di mira e un piccolo rilievo funebre cinquecentesco in alabastro, raffigurante un trionfo romano stilizzato, subì seri danni. Il rilievo di Benedetto Cervi Pavese del 1531-32 era stato scolpito in onore del duca di Nemours, ucciso nella battaglia di Ravenna del 1512 mentre guidava una carica di cavalleria. Le similitudini tra l’opera di Cervi Pavese e «Guernica» non mancano, ma a rendere l’intuizione ancora più plausibile è una scoperta di Caulfield che con un lavoro da detective ha rintracciato sulla prima pagina de «L’Humanité» (il giornale preferito di Picasso) del 13 febbraio 1937 un’illustrazione del rilievo danneggiato, a fianco di un titolone che annunciava l’imminente mostra di Parigi in cui sarebbe stata esposta «Guernica». Caulfield non dice affatto che Picasso si sia concentrato su quest’unica fonte, ma ci offre un’ipotesi intrigante.
L’istinto da gazza ladra di Picasso e la sua insaziabile memoria visiva sono leggendari, qui però è in gioco una questione più ampia. Con «Guernica» Picasso aveva adottato la grisaille del lutto e del dolore e il peculiare, potente tenore del rituale religioso spagnolo. Lo stesso giorno in cui Henry Moore si recava nello studio di Picasso per osservare l’artista al lavoro su «Guernica», un altro visitatore meno noto ricorda quell’occasione in modo del tutto diverso. Fu un giorno affollato di personalità, tra cui Max Ernst, Paul Éluard, Roland Penrose, André Breton e Alberto Giacometti. Raramente però si menziona il poeta/mentore José Bergamín, che fece da cassa di risonanza politica di Picasso.
Teatralità religiosa
Molti di quegli artisti famosi avevano cercato di dissuadere Picasso dall’usare il colore in «Guernica» confondendone l’aspetto. Bergamín suggerì a Picasso che, in quanto inventore del collage, avrebbe potuto incollare ritagli di carta da parati per sperimentarne l’effetto invece di applicare il colore, azione che sarebbe stata irreversibile. La fotografia della Maar ha registrato quel momento per i posteri. Fu una delle poche volte in cui Picasso lavorò a un’opera con un certo livello di collaborazione. Alla fine dell’incontro Picasso consegnò a Bergamín una «lágrima» ritagliata nella carta, una lacrima umana, che gli ordinò di conservare religiosamente in un reliquiario; una lacrima da tirare fuori ogni venerdì durante il periodo di esposizione di «Guernica» e da applicare in un punto qualunque del dipinto, a sua scelta. Era solo un gioco? Un esempio perfetto di morbosità, un affronto crudele alla Maar, che regolarmente faceva posare come modella per la sua donna piangente? O forse Picasso intendeva qualcosa di più profondo?
La grisaille, centrale nell’arte spagnola, lo è anche nei riti della fede spagnola. La teatralità della religione spagnola si manifesta all’interno delle chiese, ma anche nelle piazze e nelle strade. Durante il «Corpus Christi» (Corpus Domini) le processioni avanzano sotto baldacchini scuri che per alcuni secondi, quando il sole filtra attraverso di essi, s’illuminano platealmente per poi tornare subito dopo in una penombra ancora più cupa. Ovunque ci sono lanterne, alcune collocate in alto. La processione, il rumore, l’elettricità emotiva, il dramma procedono come se nulla fosse.
La Pasqua del 1937 era arrivata presto, il 28 marzo, ma il «Corpus Christi» era il 1° giugno, quasi lo stesso giorno dell’invito che Picasso aveva rivolto ai suoi amici artisti ad ammirare la sua opera quasi finita. La grisaille, ormai era evidente, aveva trionfato. Come un drappo funebre steso sul dipinto ora, finalmente, c’era una parvenza di definitività.
La grisaille è il colore e la tonalità della Spagna. Fu ovvio sin dal primo giorno della commessa che Picasso avrebbe attinto all’intero ventaglio dei cliché, da «sol y sombra» a «morte nel pomeriggio». Un vasto deposito di memoria visiva dal quale Picasso poté prendere in prestito esempi di illuminazione drammatica e l’uso del bianco e nero di Goya. Ovvio il ricorso al suo «3 maggio 1808». Picasso di sicuro conosceva l’apocalittico retro di «Il giardino delle delizie» di Bosch (1503-15), con il diluvio che aveva sommerso il mondo. E, naturalmente, «La Deposizione» di Van der Weyden (circa 1435) che imita i retabli intagliati, o kast, stipi in cui figure intagliate a grandezza naturale sono collocate in uno spazio ristretto e claustrofobico. Van der Weyden aveva conferito energia all’opera giocando sulla tensione tra le piatte possibilità pittoriche del colore e il realismo tridimensionale della forma scultorea, proprio come avrebbe fatto Picasso in «Guernica».
La scala di «Guernica» non era diversa da quella di molte delle pale d’altare disseminate nelle chiese e nelle cappelle della Spagna. Forse si avvicinava di più a quella delle serie epiche degli arazzi tessuti nelle Fiandre e a partire dal Quattrocento importati in Spagna in numero sbalorditivo, considerati i prezzi altissimi. Come fondali teatrali, creavano la scena. Spesso, come a Saragozza, venivano portati all’aperto per creare teatrali corridoi e palcoscenici. Picasso, naturalmente, aveva esperienza in scenografie per balletti; sue ad esempio sono le scene per «El sombrero de tres picos» di Léonide Massine e Manuel de Falla del 1919, ora esposte alla New York Historical Society.
Sono sicuro che a occupare lo spazio mentale di Picasso fosse la ben più ricca tradizione, così celebrata in Spagna, delle «sargas», quelle grandi tele a trama larga, abbastanza flessibili da poter essere arrotolate, decorate con soggetti sacri o profani. Tradizionalmente le si appende in occasione di festività civili e religiose; per decorare un pantheon o una cappella funeraria; o, con finalità puramente pratiche, per proteggere dalla polvere le canne di un organo, o come paraspifferi di una vecchia porta in noce. Economiche da produrre, il supporto in lino o iuta era preparato infatti solo con colla di coniglio mescolata talvolta a miele, venivano decorate velocemente con soggetti appropriati. Alcune «sargas» venivano ricoperte con un sottile strato di gesso, setacciato per renderlo più morbido («yeso cernido»), col rischio che la pittura si sfaldasse. Solo poche «sargas» di soggetto profano sono giunte fino a noi; quelle sacre invece, per la loro natura, il loro status e il loro utilizzo continuo, sono molto più comuni.
Nel 1936, una delle «sargas» più celebrate, dipinta da Juan de Villoldo nel Cinquecento e raffigurante la Deposizione dalla Croce, entrò a far parte della collezione del Museo Municipal di Madrid. È interessante notare come spesso le «sargas» mescolassero, laddove il soggetto lo consentiva, motivi architettonici e paesaggistici per creare una teatralità funerea. A volte la tavolozza della grisaille creava un’immagine quasi spettrale, da raggi X, e le morbide pieghe aggiungevano un’ulteriore sensazione di movimento e di inquietante realismo. Non sto qui cercando di individuare un’unica fonte di ispirazione per la «Guernica» di Picasso, un’unica «sarga» che l’artista possa avere visto, semmai di fornire una matrice culturale che nelle nozioni di arte pubblica della Spagna e di Picasso era centrale.
Un’opera di propaganda
La professione del «sarguero» era molto rispettata e tutelata a livello corporativo, come quella dei pittori e degli scultori. Ma dove i «sargueros» espressero davvero qualcosa di originale fu nella produzione di «sargas» per la Quaresima e la Settimana Santa. Erano le «sargas» a imprimere il tono e l’atmosfera della riflessione collettiva incentrata sulla tragedia della Passione di Cristo. La Settimana Santa è il centro assoluto dell’anno cattolico, ma anche il punto più alto della teatralità religiosa. I «belenes», scene della Natività o presepi, sono una forma artistica essenzialmente statica. La Settimana Santa, invece, è viva, con il suo andamento ritmico che ci conduce verso il Venerdì Santo in un più profondo schema di cordoglio. In molte cattedrali spagnole la rappresentazione teatrale inizia con la Domenica delle Palme, con gli altari barocchi dorati e sovraccarichi di statue, ricoperti in pochi minuti da un velo di cenere. Una cupa «sarga» raffigurante la Deposizione dalla Croce viene issata per mezzo di carrucole come la vela di una nave. Due splendidi esempi di trovano nelle Cattedrali di Burgo de Osma e di Zamora. La «sarga» è lì per essere contemplata e per ribadire il tono spirituale di perdita che va oltre la consolazione e lascia letteralmente senza parole. Il climax nella vita di una «sarga» si raggiunge la Domenica di Pasqua quando viene lentamente ammainata come un gigantesco sudario, arrotolata e riposta, e l’altare maggiore si svela in tutto il suo splendore per proclamare che Cristo è risorto, ancora una volta, trionfando sulla morte.
La scelta di Picasso di utilizzare la iuta al posto di qualsiasi altro supporto per «Guernica» e l’aver compreso che l’opera sarebbe stata un elemento di propaganda destinato a viaggiare lasciano intendere che egli avesse assimilato la tradizione delle «sargas»; erano nel suo Dna di cattolico spagnolo. Peraltro, quando nel 1939 «Guernica» giunse a Manchester, gli studenti d’arte improvvisando la inchiodarono direttamente al muro, come le «sargas» in Spagna. Non è noto se Picasso abbia mai saputo che la sua gigantesca «banderole» era stata trattata in quel modo, o se gliene importasse qualcosa. All’epoca non era ancora diventata quell’icona di valore inestimabile quale la si considera oggi.
Quel che Guernica raffigura, allora, è l’orrore e la distruzione del rituale e della fede attuati gettando via tutto quel che conosciamo su tauromachia e teatralità religiosa e rovesciandolo. Il discorso è stato interrotto, il nesso logico reciso. Le case sono distrutte e gli spazi pubblici lordati. Picasso ha sempre insistito sul fatto che i personaggi dei suoi dipinti avessero un’autonomia e una vita propria. Sua moglie Olga poteva essere trasformata in un mostro dai denti affilati; Marie-Thérèse Walter fu costretta a indossare il cappellino preferito della Maar; le persone potevano persino cambiare sesso. I personaggi di Picasso sono attori sulla scena e, come burattini, non hanno controllo sul loro destino. Possono essere spinti, tirati, annegati nel colore. La claustrofobia e l’orrore di «Guernica» sono contenuti e resi accessibili perché si tratta essenzialmente di un set teatrale. Biblica nelle sue ambizioni, «Guernica» è una terrificante rappresentazione visiva della strage degli innocenti, messa in scena su un palcoscenico immateriale.