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Una veduta della mostra «Favoloso Calvino» con «Il gioco degli scacchi» (1988) di Enrico Baj

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Una veduta della mostra «Favoloso Calvino» con «Il gioco degli scacchi» (1988) di Enrico Baj

Un iconofilo Calvino alle Scuderie del Quirinale

Andrea Cortellessa ha visitato la mostra romana. «Un percorso impeccabilmente didascalico che si conclude, com’è giusto, con lo stesso artista che lo aveva inaugurato: Giulio Paolini»

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Andrea Cortellessa

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C’è una strada che da via Nazionale ascende al «colle» per antonomasia, quello del Quirinale: funestata dalla toponomastica che ricorda il maggio, «radioso» ma tragico, della Roma del 1915. All’imbrunire del 15 ottobre, via XXIV Maggio s’è accesa d’una luminaria di stelle e pianeti, con al centro un equilibrista su un filo di luce: il titolo è «Palomar», come quello dell’ultimo libro di narrativa di Italo Calvino. Quel giorno ricorreva il centenario della sua nascita, e con questa installazione, che riprendeva quella torinese del ’98, Giulio Paolini ha omaggiato la memoria dell’amico scrittore: ultimo tassello, ma primo che incontra il visitatore, della grande mostra «Favoloso Calvino» alle Scuderie del Quirinale sino al 4 febbraio 2024.

È la prima delle tante che su Calvino si sono aperte in queste settimane: a Santo Stefano Belbo (sino al primo aprile ’24) la Fondazione Cesare Pavese e quella Mancini Carini di Alba presentano «Pavese ospita Calvino»; al Labirinto della Masone di Fontanellato «Destini incrociati» (a cura di Pietro Mercogliano e Cesare Dal Pane, sino al 7 gennaio ’24) ricorda la collaborazione con Franco Maria Ricci e «Fmr» (dalla prima, fastosa edizione del «Castello dei destini incrociati» del 1969); a Palazzo Ducale di Genova «Calvino cantafavole» (a cura di Eloisa Morra e Luca Scarlini, sino al 7 aprile ’24) si concentra sul paesaggio ligure palinsesto del suo mondo fiabesco con le sue propaggini multimediali; mentre alla Biblioteca Nazionale Centrale di Roma «Lo sguardo dell’archeologo» (a cura di Eleonora Cardinale, sino al 26 gennaio ’24) mette a frutto i manoscritti e la biblioteca di Campo Marzio, da poco approdati alla Bnc, per farci entrare nel laboratorio dello scrittore ma anche nella casa dell’uomo. Infine è prevista a novembre «Le città di Calvino» (alle Terme di Caracalla, a cura di Nunzio Giustozzi), sul suo rapporto con Tullio Pericoli.

Proprio Pericoli è uno dei tanti artisti in attività esposti alle Scuderie del Quirinale (con le sue formiche postsurrealiste Emilio Isgrò «cancella» naturalmente La formica argentina, racconto del ’52 dalla ricca documentazione preparatoria; ci sono poi Luigi Serafini con 14 tavole dal mirifico «Codex» dell’81, che un entusiasta Calvino volle sulla copertina del suo ultimo libro, «Collezione di sabbia»; un magnifico, magnetico «buco nero» di Richard Serra intitolato semplicemente «Calvino»; un vortice «op» di Marina Apollonio nel ’77 posto in copertina a «Ti con zero» eccetera). Non tanto per i suoi ritratti (che si aggiungono ai ben 8, dall’espressionismo un po’ seriale, di Carlo Levi e a quelli fotografici: bellissimi quello «lirico» di Ugo Mulas, quello «concettuale» di Carlo Gajani, quello «teatrale» di Irving Penn), bensì per un episodio curioso del 1980, Furti ad arte, col quale pittore e scrittore facevano a gara nel (tardivamente) dichiarare il proprio debito nei confronti di Paul Klee. Proprio la presenza di Klee (due disegni e due incisioni, fra le quali «L’equilibrista» in copertina ai Racconti nel ’76; nonché il dipinto del ’37 «Abend in N») è la prima avvisaglia di un aspetto che sorprende con piacere: lo splendere, a punteggiare questo percorso impeccabilmente didascalico (nel senso migliore del termine: il catalogo Electa è scritto per intero da uno specialista infallibile come Mario Barenghi, ed è la migliore introduzione alla vita e all’opera di Calvino in generale), di opere d’arte, anche prestigiose, a vario titolo legate al percorso dello scrittore.

Così dopo Klee è la volta dei «Tarocchi di Marsiglia» del 1751, delle stampe di Dürer del «San Gerolamo nello studio», delle quattro grandi «Torri della città invisibile» di Fausto Melotti (negli anni Novanta sui primi «Oscar» di Calvino), dei Luttazzi, degli Scialoja, dei Peverelli, degli Adami, dei Baj, degli Arakawa, sino agli spettacolari Domenico Gnoli (tutti oggetto di celebrati scritti calviniani, di recente raccolti da Marco Belpoliti nel prezioso volume Guardare, 740 pp., Mondadori, Milano 2023, € 26); importante un artista sul quale Calvino non ha scritto ma che gli ha dato forse un’idea decisiva: il Gianfranco Baruchello di «Grande effetto Palomar» (1963). Questa presenza «auratica» ridefinisce il rapporto con le immagini dell’iconofilo Calvino, di norma considerate solo sulle due dimensioni della pagina (o della copertina): sino al colpo di teatro della formidabile versione con predella «a fumetti» del «San Giorgio che uccide il drago» di Carpaccio (1516; Calvino ne parla nel Castello dei destini incrociati), prelevata dall’Abbazia di San Giorgio Maggiore a Venezia.

Scriveva Calvino a Mario Boselli nel ’64: «La pagina non è una superficie uniforme di materia plastica, è lo spaccato di un legno, in cui si possono seguire come corrono le fibre, dove fanno nodo, dove si diparte un ramo». E la dimensione verticale è protagonista della mostra sin dal suo ingresso, tutto dedicato al tema dell’Albero, con un pensiero ovviamente al Barone rampante ma anche all’ancora sottovalutato influsso dei genitori scienziati, l’agronomo Mario Calvino e la botanica Eva Mameli: una grande installazione di Eva Jospin, un tronco bronzeo di Penone, la rara illustrazione appunto destinata al Barone dal giovane Gnoli, e un simpatico disegno dello stesso Calvino che ne accompagnava un’anticipazione sul «Notiziario Einaudi» nel ’57.

Il percorso si conclude com’è giusto con lo stesso artista che lo aveva inaugurato: Giulio Paolini. Il progetto per la pietra tombale di Calvino, la nuova e composita opera «Guardare» (che paga un tributo alla comune passione per de Chirico) e alla fine, anche questo uno scoppiare d’aura inaspettato, tanto mitologizzato quanto raramente esposto, l’originario «Disegno geometrico» del ’60, che Calvino commentava nel testo preposto a Idem di Paolini, La squadratura (di questo libro del ’75 è ora uscita da Electa una nuova edizione, 160 pp., ill. col., € 25, che riporta anche il prosieguo del testo, in precedenza inedito, che fornì lo spunto per Se una notte d’inverno un viaggiatore).

Si può ben dire che in quest’arco, dall’albero naturale delle radici botaniche di famiglia a quello perfettamente schematizzato, à la Mondrian, del puro schema di Paolini, si riassuma tutta la vicenda dello scrittore. Tanto «realista» ed engagé quanto «astratto» e combinatorio, dal «Politecnico» all’OuLiPo, Calvino è stato tutto questo. Lo dice un passo famoso delle Città invisibili: al Khan che protesta «Perché mi parli delle pietre? È solo dell’arco che mi importa», come si ricorderà Marco Polo risponde: «Senza pietre non c’è arco». Per costruire la sua opera, però, Calvino sapeva che era vero anche il contrario.

Una veduta della mostra «Favoloso Calvino» con «Il gioco degli scacchi» (1988) di Enrico Baj

Andrea Cortellessa, 22 novembre 2023 | © Riproduzione riservata

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