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Mohammed Al-Hawajri, «Life», 2018

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Mohammed Al-Hawajri, «Life», 2018

A Brescia le opere salvate dalla distruzione della galleria palestinese Eltiqa

In occasione dell’ottavo Festival della pace il Museo di Santa Giulia espone lavori di Mohammed Al-Hawajri, Dina Mattar, Emily Jacir e Haig Aivazian

Ada Masoero

Giornalista e critico d’arte Leggi i suoi articoli

In prima linea come sempre nei progetti per il Festival della pace di Brescia (7-23 novembre), la Fondazione Brescia Musei presenta, in questa ottava edizione della manifestazione, la mostra «Material for an Exhibition. Storie, memorie e lotte dalla Palestina e dal Mediterraneo» (catalogo Skira), promossa dal Comune e curata da Sara Alberani per il Museo di Santa Giulia, dove è visibile dall’8 novembre al 22 febbraio 2026

Il progetto, di tragica attualità, vede protagonisti tre artisti di Gaza Mohammed Al-Hawajri, Dina Mattar e la più celebre Emily Jacir (Leone d’Oro alla Biennale di Venezia nel 2007, ispiratrice del titolo della mostra che si rifà al suo lavoro «Material for a Film»), e un artista libanese, Haig Aivazian, anch’egli attivo in una terra di conflitti. Ad accrescere il carico di dolore (se mai ce ne fosse bisogno) del progetto sono le circostanze vissute da Mohammed Al-Hawajri (1976) e Dina Mattar (1985), fondatori di Eltiqa («incontro», in arabo) Group for Contemporary Art, una delle prime gallerie d’arte contemporanea nella Striscia di Gaza, impegnata sin dal 2000 a sostenere gli artisti locali, che nel 2023 è stata devastata da un bombardamento.

Fra le loro opere esposte a Brescia ce ne sono alcune di quelle che si sono salvate dalla distruzione della galleria, portate qui dai due artisti, cui si aggiungono i lavori che hanno prodotto a Brescia, dove sono stati invitati per una residenza. Sono loro ad aprire il percorso della mostra (che è arricchita anche da prestiti giunti da New York dal National Museum of Contemporary Art di Atene e dalla Sharjah Art Foundation di Sharjah) con opere in cui entrambi rileggono la vita quotidiana in un teatro di guerra quale è quello di Gaza, lui intrecciando memoria e gesti feriali in un linguaggio che sa nutrirsi anche di ironia; lei riflettendo soprattutto sulla vita e sugli affetti.

Di Al-Hawajri è esposto il ciclo «The Animal Farm» (2011) con i grandi dipinti dedicati alla relazione d’interdipendenza fra esseri umani e animali nella cultura palestinese, cui si aggiunge la serie «Maryam» (2015), di cui è protagonista la madre dell’artista, assunta a simbolo della forza delle donne locali. Di Mattar, oltre alle suggestive composizioni astratte su fogli di quotidiani e a quelle ispirate alla pittura di Joan Miró, ci sono i volti e le scene di vita da lei tracciate con tratti delicati e colori vividi, come per esorcizzare l’orrore del quotidiano.

Molteplice il linguaggio espressivo di Aivazian (1980), che si serve di immagini in movimento, scultura, installazione, disegno e performance per esplorare e porre in evidenza l’impronta che il potere (specie quello dell’Occidente sulle altre culture) imprime su persone, animali, paesaggio, architettura. In mostra, l’installazione video immersiva «All of the Lights» (2021) indaga l’uso della luce e dell’oscurità come strumento poliziesco e di controllo, mentre «1440 Couchers de Soleil par 24 Heures (1440 Tramonti in 24 Ore)» (2017-21) si concentra sulle pratiche di «predictive policing».

Il congedo è affidato a Emily Jacir (1970), di cui sono esposte opere miliari come «Memorial to 418 Palestinian Villages Which Were Destroyed, Depopulated, and Occupied by Israel in 1948» (2021), una tenda per rifugiati su cui sono ricamati a mano, in una sorta di rito collettivo, i nomi di centinaia di villaggi palestinesi distrutti durante la Nakba (l’esodo) palestinese del 1948, e «We Ate the Wind» (2023), un’installazione video mai esposta prima in Italia sull’emigrazione degli italiani del Sud verso la Svizzera, di cui l’artista accomuna le esperienze a quelle vissute dai palestinesi. E poi, naturalmente, «Material for a Film» (2005-in corso), un lavoro emozionante formato da mille libri bianchi trafitti da un colpo di pistola, come quello con cui il Mossad uccise nel 1972 a Roma il poeta palestinese Wael Zuaiter, perforando la copia di Le mille e una notte che lui, che intendeva tradurla in italiano, portava nel taschino. Un simbolo universale della tragedia che colpisce il popolo palestinese non solo per le innumerevoli vite perdute ma anche per la volontà di cancellarne la memoria. 

Emily Jacir, «Memorial to 418 Palestinian Villages which were Destroyed, Depopulated and Occupied by Israel in 1948», 2001, Atene, National Museum of Contemporary Art

Ada Masoero, 06 novembre 2025 | © Riproduzione riservata

A Brescia le opere salvate dalla distruzione della galleria palestinese Eltiqa | Ada Masoero

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