Dopo le recenti mostre presso il Mart di Rovereto, la Reggia di Venaria, il Palazzo Reale e la Cavallerizza Reale di Torino (cfr. «Vernissage» n. 246, giu. ’22), Nicola Bolla ha inaugurato alla Castiglia di Saluzzo, nel cuneese, sua città natale, una grande mostra personale che fino al 3 settembre affronta alcuni dei temi cruciali del suo quarantennale lavoro: i fantasmi di una vita, il «martirio» dell’essere artista, il confronto con l’arte antica, l’ossessione del collezionismo, l’amore per le Wunderkammer, il ruolo cruciale dell’arte in un mondo in guerra per il potere, la consapevolezza della nostra vanità che, per colui che ha «giocato» con la scultura invertendone il senso, rappresenta la quintessenza del biblico giudizio circa il destino dell’uomo: «Vanitas vanitatum et omnia vanitas» («Vanità delle vanità, tutto è vanità», la frase che apre e chiude l’Ecclesiaste). «The Ghosts of My Friends» è la mostra che tratta dei vani desideri dell’uomo mettendo in scena una serie di opere che sono altrettanti memento mori con cui Bolla sembra indicarci l’essenza stessa dell’arte e il tema capace di riannodare il filo spezzato tra l’arte del passato e quella contemporanea. Qui di seguito una conversazione tra lui e il curatore della mostra, il filosofo e critico d’arte Nicola Davide Angerame.
Negli anni Novanta e primi Duemila, in tempi di maggiore ottimismo, la vulgata critica che accolse il suo lavoro sulla scultura tese a evidenziare soprattutto l’ironia e lo stile ritenuto kitsch con cui trattava i temi classici della vanitas e del memento mori. Oggi, dopo due decenni, una rilettura critica sembra necessaria.
I tempi sono cambiati, la mia arte a quel tempo rompeva gli schemi perché non era né post poverista né post transavanguardista, quindi era letta puntando più sulla giocosità e sulla proposta di materiali sorprendenti, come i cristalli Swarovski e le carte da gioco, che non per quel mio rapporto con il mondo antico e con il collezionismo da cui in realtà nascevano. Il Kitsch non mi ha mai interessato ed è frutto di giudizi frettolosi. Io lavoro sul memento mori contemporaneo e il materiale che utilizzo evoca l’invenzione di una scultura moderna luminosa, trasparente e leggera.
Ha spesso dichiarato di aver iniziato già da bambino a voler costruire i suoi giocattoli ed è stato forse più facile «leggere» la sua arte come un proseguimento del gioco, ma i suoi inizi sono ben più seri.
In realtà io nasco come pittore e da un dialogo ininterrotto con mio padre Piero Bolla, artista e docente d’arte a Saluzzo (la Castiglia ha ospitato nel 2018 una sua grande personale, Ndr). La scultura invece è nata come un evento privato, da una mia esigenza pratica: fare delle opere che dovevano completare la mia collezione e che non riuscivo a trovare tra antiquari e gallerie.
La sua collezione. Già, l’ossessione di una vita. Ma che cosa significa per lei collezionare?
È il divertimento della scoperta, la mia ammirazione per il gesto creativo, il piacere dello studio. Di ogni oggetto che acquisto cerco gli autori e le fonti. Non si tratta di accumulare cose ma usarle per svolgere un percorso di conoscenza. In fondo non hanno per me una così grande importanza, non sono legato al bene materiale ma alle idee. Colleziono per alimentare il mio mondo interiore, che è onirico e fiabesco ma non per questo meno legato alla realtà. Come nei «fairy tale» vittoriani, a cui ho dedicato un ciclo di grandi dipinti, la fiaba parla della realtà, ne esprime un simbolo potente. A me interessano questi simboli e ne trovo ovunque nella storia, così come nel mondo attuale.
Come «Citizen Kane» di Orson Welles, prepara la sua Gesamtkunstwerk, la sua opera d’arte totale, nella Villa del Maresco.
La villa appartenne al grande collezionista Vittorio Emanuele Taparelli d’Azeglio, una figura che torna nella mia vita di tanto in tanto, ma con regolarità. Sono nato nella via che porta il suo nome e lui in questa villa aveva raccolto le sue collezioni tra cui quelle di vetri antichi e ceramiche, che oggi si trovano in Palazzo Madama a Torino. Vidi la villa da bambino, per caso, e trent’anni dopo l’ho comprata per una coincidenza. Vi costruirò una Wunderkammer moderna, dove farò dialogare le mie sculture con gli oggetti collezionati esaltando la stratificazione storica e la capacità di meravigliare. Conterrà le mie tante vanitas, perché tutte le mie opere con i cristalli sono riferite a essa.
Le sue vanitas sono state interpretate come provocatoriamente svagate e spesso lette come un divertissement barocco. Ma c’è un lato contemplativo che chiama al raccoglimento.
Ricordati che devi morire e non ti affezionare tanto ai beni materiali, ma ricordati anche che puoi vivere bene se fai pace con la tua finitezza e ti comporti bene moralmente. Nel mio discorso richiamo la morte per elogiare la vita e lo faccio con la luce, che è sempre sinonimo di vita. Senza luce le cose non vivono e lo stesso vale per le mie sculture. Sono un memento mori contemporaneo che sfrutta alcune immagini simboliche della nostra epoca come il fungo atomico, la fossa comune o il teatro russo attaccato dai terroristi ceceni, ma anche oggetti comuni come i microfoni esposti alla Biennale di Venezia del 2009.
Le sue sculture iniziali erano però diverse.
Ma sempre legate alla mia passione per l’antico. Il grande ramo di corallo fuori scala era ispirato alla Pala di Brera di Piero della Francesca, in cui Gesù bambino porta una collana di corallo rosso come simbolo del suo futuro sacrificio. La gigantesca corona esposta a Palazzo Bricherasio derivava da quelle d’argento poste sulle statue lignee della Madonna, che colleziono da tempo. Anche il mio più recente coccodrillo di carte nasce da una passione per le grafiche coeve della Wunderkammer cospiana a Bologna. Il mio rapporto con l’arte antica, dove gli oggetti avevano un loro senso simbolico, è un percorso lineare. L’oggetto è anche testimone del proprio tempo e la mia scultura anche: simbolo e testimonianza. Per me non esiste una vera differenza tra l’arte antica e quella contemporanea.