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Matteo Mottin
Leggi i suoi articoliGiorgio Griffa (Torino, 1936) e Simon Starling (Epsom, Regno Unito, 1967) si conobbero nel 2017 durante una cena a New York. Dopo quell’incontro, Starling decise di inviare a Griffa un raro pennello giapponese fatto con i capelli delle pescatrici di perle Ama. Si tratta di uno strumento molto particolare: i capelli delle pescatrici, per i lunghi e frequenti bagni in acqua salata e per la pulizia in totale assenza di tensioattivi, acquistano una compattezza ideale per la stesura della lacca urushi, una delle forme d’arte tradizionale più antiche del Giappone. Griffa risponde con tre opere su carta di grandi dimensioni, dipinte con quel pennello, piegate e spedite in una busta. Starling le incornicia e, basandosi sulla quadrettatura delle pieghe (elemento ricorrente nell’opera dell’artista torinese), interviene sul lato interno del vetro con grandi lettere che formano parole legate al progetto. Queste opere a quattro mani sono esposte nella prima sala di «D1-D5», la mostra che la Fondazione Giorgio Griffa di Torino dedica fino al 22 gennaio 2026 al dialogo tra i due artisti, due personalità molto distanti per tecnica, approccio e metodo, ma che nel loro incontro rivelano inaspettate prospettive e assonanze.
La mostra è molto ben costruita: è suddivisa in cinque sezioni, ciascuna introdotta da una didascalia che riporta un dialogo (a cui le «D» del titolo si riferiscono) tra i due artisti. Analizzando la composizione di questi brevi testi si può intuire molto sull’attitudine dei due artisti: Griffa usa pochissime subordinate, con l’effetto che ogni parola impiegata acquisisce la medesima importanza e peso delle altre, e ogni elemento risulta in primo piano, proprio come i segni della sua pittura; Starling costruisce le sue frasi, così come i suoi lavori, come una serie di cause ed effetti concatenati, in cui ogni elemento è anello di un perpetuo circolo di trasformazioni e rimandi. L’approccio dell’artista inglese è evidente nell’opera «Head to Toe» (2017) esposta nella prima sala. Si tratta di un’installazione composta da più elementi connessi tra loro da legami logici e poetici: un ramo dell’albero da cui si estrae la resina per la lacca urushi è stato tagliato in modo che abbia la stessa altezza dell’artigiano che, usando il sopracitato pennello, ha applicato la lacca su una teca, la quale contiene un lingotto d’oro, stirato alla stessa lunghezza del suddetto ramo; una seconda teca con i vetri rossi (l’oro, aggiunto all’impasto di vetro fuso, lo colora di rosso) contiene il pennello; queste vetrine sono illuminate da una lampada fatta a mano che contiene un filamento di tungsteno incandescente lungo quanto il lingotto stirato (e il ramo, e l’artigiano); vicino al ramo, una fusione in tungsteno delle calzature che l’artigiano abitualmente indossa mentre lavora.
Una veduta della mostra «D1-D5» alla Fondazione Giorgio Griffa, Torino. Photo: Federico Rizzo. Courtesy Fondazione Giorgio Griffa
Ogni oggetto di questo gruppo scultoreo potrebbe anche funzionare singolarmente, ma la sua identità si esplicita nella relazione con l’insieme. L’installazione è messa in dialogo con un lavoro di Griffa, «Disordine PO» (2025), che riprende in maniera laterale e delicata il medesimo concetto: una composizione di semicerchi intersecanti, dello stesso rosso della vetrina, accoglie tra le sue curve leggeri segni fluidi, linee del medesimo spessore ma di colori diversi, che non si contendono lo spazio della tela grezza ma suggeriscono ipotesi di evoluzioni e movimenti. Nelle parole dell’artista, riportate in didascalia: «La prima cellula che si è moltiplicata, al principio della vita, ha incarnato un atto di disordine nell’ordine precedente e così via fino a diventare pesci, formiche, elefanti». Questo primo dialogo introduce il tono di una mostra ben riuscita, che si può leggere come una poesia o analizzare come un saggio, traendone in ambo i casi un profondo e durevole arricchimento.
Nel 2018, l’anno seguente al loro primo incontro, Starling visita lo studio di Griffa a Torino e realizza un report per Frieze. In una grande teca orizzontale troviamo copie della rivista che mostrano le fotografie scattate dall’artista all’atelier, e nella parete di fronte troviamo installate le stesse opere di Griffa che si intravedono in una delle immagini. Accanto alle pagine della rivista, una spatola per mischiare il colore, quattro pennelli e tre ciotole di plastica accresciute da centinaia di strati di pigmento: sono gli strumenti che Griffa usa quotidianamente da oltre trent’anni, e questa cura e rispetto nei confronti dei materiali ci fa comprendere come la sua pittura sia in fondo una costante ricerca di un approccio più consapevole nei confronti della vita, una lunga indagine su un possibile modo di stare al mondo che non gravi sugli altri e sull’ambiente. La portata di questo metodo viene evidenziata da una fotografia di Starling che ritrae uno scaffale su cui sono disposte basse pile di tele piegate: il magazzino in cui Griffa conserva le opere. Fin dagli esordi l’artista torinese non usa incorniciare i lavori, preferendo appenderli direttamente a parete con piccoli chiodi ai margini della tela, e l’immagine di Starling ci fa comprendere quanto sia concreta questa attitudine: un’intera personale dell’artista può essere movimentata con un’unica, piccola cassa.
Questa modalità è ripresa in maniera molto intelligente anche nel foglio di sala, su progetto grafico di Studio Grand Hotel: un poster del colore della tela grezza, piegato in otto parti con le stesse proporzioni che troviamo nelle opere di Griffa, che da un lato presenta titolo e nomi degli artisti su una cascata di segni semicircolari, dall’altro la visione in pianta dello spazio, che accoglie al suo interno i testi relativi a ogni sala e al centro una breve sinossi dell’intero progetto espositivo.
Se nelle opere di Starling la materia diventa fonte di molteplici narrazioni concatenate, rivelandone ordini e coordinate nascoste, in quelle di Griffa troviamo un linguaggio, una possibile grammatica con cui strutturare nuovi dialoghi con la realtà. Le visioni presentate in «D1-D5» restituiscono un condiviso stupore verso ciò che la natura e gli esseri umani sono in grado di produrre.
Una veduta della mostra «D1-D5» alla Fondazione Giorgio Griffa, Torino. Photo: Federico Rizzo. Courtesy Fondazione Giorgio Griffa