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Germano D’Acquisto
Leggi i suoi articoliC’è un momento preciso in cui la pubblicità italiana smette di essere una semplice vetrina e diventa un linguaggio. È quando lo sguardo di Oliviero Toscani incontra quello di una modella che non sembra più voler vendere un prodotto, ma un’idea. O un’ironia. O uno schiaffo morale. La mostra «Moda e Pubblicità in Italia 1950-2000» alla Fondazione Magnani-Rocca di Mamiano di Traversetolo (Pr) fino al 14 dicembre, racconta proprio questo passaggio: quando la moda e la pubblicità, nel secondo Novecento, si sono fuse al punto da diventare un’unica macchina mitologica, capace di riscrivere il costume nazionale. Si intitola «Non avrai altro stile all’infuori di me», e il titolo, già di per sé, racconta tutto.
Dalla fine degli anni Cinquanta ai Duemila, più di 300 opere tra manifesti, riviste, spot, fotografie, figurine Fiorucci e gadget pubblicitari, ricostruiscono mezzo secolo di immaginario italiano, con lo sguardo filologico ma non nostalgico dei curatori Dario Cimorelli, Eugenia Paulicelli e Stefano Roffi. Il percorso mette in scena una rivoluzione visiva che passa per gli scatti di Gian Paolo Barbieri, Giovanni Gastel, Alfa Castaldi, Ugo Mulas, e per le illustrazioni di René Gruau, Sepo, Franco Grignani, Guido Crepax, Antonio Lopez e Lora Lamm. È la storia di come l’estetica si è fatta linguaggio, di come l’immagine ha preso il posto della parola.
In fondo, la moda italiana nasce come un racconto collettivo: un patchwork di ambizioni, sogni e contraddizioni che riflette la trasformazione del Paese. Negli anni del boom economico si guarda all’America, ma si resta profondamente italiani: artigiani più che industriali, narratori più che comunicatori. Carosello, con le sue regole e i suoi tempi da teatro d’avanspettacolo, è un laboratorio paradossale. Troppo lento per essere moderno, ma proprio per questo capace di produrre un’estetica unica: fatta di ironia, racconto e piccola morale domestica.
Poi arrivano gli anni Ottanta, e il tono cambia. Le televisioni private, il colore, la moda che si fa potere, status, linguaggio globale. La pubblicità non è più un servizio, ma un’esperienza. Fiorucci e Benetton, Armani e Versace riscrivono il modo di vedere e desiderare. Toscani porta l’etica nella comunicazione di massa, o forse la estetizza: bambini di razze diverse, preti che baciano suore, condannati a morte che guardano in camera. Non è solo provocazione, è una dichiarazione di poetica. E un nuovo modo di raccontare l’Italia: non più quella delle cartoline o dei Caroselli, ma quella che comincia a guardarsi nello specchio dell’immagine globale.
La mostra restituisce con intelligenza questo doppio registro: la tensione tra industria e arte, consumo e cultura, artificio e identità. C’è spazio per la nostalgia, certo, ma anche per la lucidità di uno sguardo critico. Vedere in sequenza le pubblicità di Armani, Gucci, Moschino, Max Mara, Ferré o Zegna significa assistere a un racconto di emancipazione collettiva, ma anche a una trasformazione del corpo come superficie semantica. È lì che la moda si fa «discorso»: un linguaggio del desiderio e del potere.
Il percorso si completa con una sezione audiovisiva curata da Emmanuel Grossi e dall’Archivio Generale Audiovisivo della Pubblicità Italiana: una miniera di spot televisivi, caroselli, esperimenti filmici che oggi sembrano quasi opere d’arte contemporanea. E in effetti lo sono. Perché nel secondo Novecento, la pubblicità ha avuto il coraggio che spesso è mancato al cinema o alla politica: quello di parlare al presente.
A rendere ancora più sorprendente l’esperienza è la cornice stessa: la Villa dei Capolavori, immersa nella campagna parmense, dove convivono Monet e Morandi, Tiziano e Burri, Van Dyck e de Chirico. Camminare tra gli affreschi e trovarsi davanti un manifesto di Fiorucci o uno scatto di Gastel è un cortocircuito perfetto: l’arte alta e quella pop che si guardano senza giudicarsi.
Oggi, che la pubblicità vive una crisi d’identità e la moda si racconta più su Instagram che nelle riviste, questa mostra ricorda una cosa semplice ma urgente: che l’immagine, quando è fatta bene, non è solo marketing. È memoria. È cultura. È il modo in cui un Paese impara a riconoscersi, e a sognarsi, di nuovo.
Giovanni Gastel, «4 colori almeno copertina per rivista “Donna”, marzo 1982»