Il Padiglione degli Emirati Arabi Uniti ha annunciato la mostra «Pressure Cooker», prevista per la 19ma Mostra Internazionale di Architettura-La Biennale di Venezia, in programma dal 10 maggio al 23 novembre. Il tema è quello sempre più pressante della sicurezza alimentare. Curata dall’architetta e studiosa emiratina Azza Aboualam, la mostra indaga il rapporto in evoluzione tra l’architettura e la produzione alimentare negli Emirati Arabi Uniti, partendo da una ricerca sul campo che ridà valore alle tecniche tradizionali e alla voce di chi è direttamente coinvolto nei processi di coltivazione e le cui conoscenze passano spesso in secondo piano, ovvero i contadini emiratini.
Abbiamo intervistato Azza Aboualam per capire meglio il processo che ha portato a immaginare nuove soluzioni architettoniche per ambienti aridi.
La mostra si basa su ricerche d’archivio e sul lavoro sul campo. Quale metodo avete seguito?
Sono interessata a questo metodo dal 2017, ma la formalizzazione di questo percorso è avvenuto quando sono stata nominata curatrice del padiglione. Il lavoro sul campo e la ricerca d’archivio sono durati circa cinque mesi e hanno riguardato tutte le aree del Paese, tutti e sette gli emirati, da Ras al-Khaima al confine con l’Arabia Saudita. Il tempo negli archivi è servito a cercare giornali locali che documentavano il passato, mentre il lavoro sul campo ha incluso visite alle coltivazioni, viaggi in tutti gli Emirati Arabi Uniti, colloqui con i contadini, fotografie, interviste e disegni usati come forma di comprensione delle strutture e del loro funzionamento (da come funziona il reperimento dell’acqua alle sezioni di un muro per comprendere cosa lo renda isolante).
Quali minacce per la produzione alimentare avete incontrato durante la ricerca?
L’aumento della temperatura è un tema all’ordine del giorno, perché nonostante gli Emirati Arabi Uniti abbiano nove mesi su dodici in cui fa relativamente caldo, le temperature estreme in estate influiscono molto sulla produzione di cibo, in termini di colture. Il degrado del suolo è uno dei principali pericoli, come la mancanza di acqua nei terreni agricoli e, in alcuni emirati, l’espansione urbana.
Possiamo imparare dai sistemi di produzione tradizionali?
Sicuramente. Studiare l’esperienza locale aiuta molto, perché questi metodi sono stati sviluppati nel tempo e sono stati rivisti più volte. I problemi spesso sono stati già risolti adattando e trasformando i metodi di coltivazione. Le difficoltà che incontriamo sono due: la mancanza di condivisione di questa conoscenza e la comprensione di come potrebbe essere utilizzata su larga scala.
In che modo le competenze locali si sono adattate alle specifiche condizioni climatiche e ambientali della regione?
Ho parlato con un agricoltore di Ras al-Khaima, che mi ha detto: «Ho ereditato questa tecnica dal mio bisnonno e l’abbiamo utilizzata per sessant’anni, un periodo durante il quale abbiamo piantato il grano in montagna». Ha così scoperto che si deve seminare ogni anno il 3 febbraio. Quest’anno ha anticipato la semina di due settimane per il Ramadan e mi ha detto: «Vedo già che le piante non sono contente». Un altro agricoltore, vicino a Dubai, ha costruito da solo la sua struttura e ha sviluppato un programma di irrigazione dei suoi banani. Ha scoperto che, affinchè restino verdi per tutta l’estate, deve attivarlo dalle 9 alle 11.30 per cinque minuti ogni trenta e poi, dalle 12 alle 16, per sette minuti ogni venti. Ha provato questo metodo per sette anni, ed è l’opzione migliore, cambiando inoltre la rete ombreggiante ogni sei mesi per assicurarsi che il sole non si infiltri e uccida i suoi banani.
Negli Emirati Arabi Uniti le infrastrutture per la coltivazione sono situate in paesaggi ricchi di risorse ma spesso separati dai centri urbani. Che effetto ha questo sulla produzione alimentare?
Come in altri luoghi del mondo, non è frequente trovare i terreni agricoli accanto a quelli in cui vive la popolazione. Negli Emirati Arabi Uniti solitamente le aree di agricoltura intensiva sono ricche di acque sotterranee, e queste aree si trovano ai piedi delle montagne, lontane dagli insediamenti urbani. Inoltre l’agricoltura è vista come un’attività di secondo ordine. Parlando con gli agricoltori stessi, ho notato che pensano che il loro lavoro sia una semplice conoscenza comune, mentre non è così. Molti di loro non si rendono conto del valore della loro conoscenza, del potenziale che risiede nel collegamento tra città e agricoltura. C’è una grande ricchezza in questo scambio ed è a questo che guarda il progetto: come possiamo offrire opportunità mettendo insieme chi vive in città e le aziende agricole rurali.
Quali soluzioni state sviluppando?
Attualmente stiamo immaginando come, in futuro, le città emiratine potrebbero assorbire la produzione alimentare nell’architettura. Stiamo sperimentando un kit-of-parts, che è un modello architettonico suddiviso in singoli elementi, praticamente come un set Lego, che possono comporre una serra. Stiamo sperimentando come il tetto possa esprimersi, come il materiale delle pareti possa contribuire, come il pavimento possa potenzialmente interagire con questo kit, scomponendo gli elementi architettonici, mescolandoli e abbinandoli nei diversi modi in cui le serre possono manifestarsi. Uno strumento digitale ne analizzerà l’efficacia: al momento è una fase molto sperimentale, ma nel lungo periodo l’idea è di reimmaginare il concetto di serra per gli ambienti ostili. C’è tanto potenziale: una serra potrebbe far parte di una scuola fornendo uno spazio non solo per l’istruzione, ma per espandere la conoscenza in tutto il tessuto sociale degli Emirati Arabi Uniti.
Ritiene che la sicurezza alimentare possa essere sostenibile nonostante il cambiamento climatico e l’urbanizzazione?
Penso che sia fattibile, si tratta solo di sistematizzare un processo. Dobbiamo capire come funziona, quali linee guida fornire affinché questi elementi possano essere sostenibili, ma anche dare sicurezza sul risultato. Molti degli agricoltori che ho incontrato sono insoddisfatti della quantità di denaro che spendono per la serra rispetto al raccolto. Quindi il ricavo, in termini di sostenibilità, è molto importante, così come l’aumento sia dell’efficacia sia della proliferazione delle serre nelle città.
Questo lavoro com’è stato tradotto nella mostra?
Per quanto posso dire in questo momento, si tratta di una combinazione del progetto di ricerca del kit-of-parts, un racconto della sperimentazione e dell’esplorazione fatta. La mostra sarà molto incentrata sulla ricerca sul campo e su come possiamo riformularla per immaginare la produzione alimentare negli Emirati Arabi Uniti in modo sperimentale. Ci saranno materiali visivi della ricerca, come schizzi e fotografie, e speriamo di mostrare parti del kit-of-parts.
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Campi di mais e «net houses» a Liwa, Abu Dhabi da Ola Allouz, «Pressure Cooker», 2024. Cortesia del National Pavilion Uae, La Biennale di Venezia. Foto: Ola Allouz