Il titolo della Biennale, «Stranieri ovunque», descrive perfettamente l’arte di Anna Maria Maiolino (Scalea, Italia, 1942; vive a San Paolo, Brasile) e la sua costante ricerca di un’identità personale e condivisa, che sceglie di guardare alla vita con sincerità e abbraccia la propria fame di mondo. A lei, e all’artista turca Nil Yalter (1938), che partecipano per la prima volta alla Biennale Arte, è stato conferito il Leone d’Oro alla carriera. Maiolino sarà presente con una nuova opera di grandi dimensioni che prosegue e sviluppa la serie delle sue sculture e installazioni in argilla.
Il suo lavoro ha la straordinaria capacità di veicolare in forme chiare e familiari una ricerca complessa e stratificata, che intreccia vita personale, trasformazioni geopolitiche e istanze sociali legate alla migrazione e al genere, capace di interagire con pubblici diversi. Questa apertura a letture multiple non fa che amplificare il portato politico del suo agire artistico. Si tratta di una volontà che precede e inquadra il suo lavoro?
So che la parola «necessità» è fin troppo usata dagli artisti, ma io trovo che se non ci fosse un senso di necessità nell’essere umano l’arte non esisterebbe. L’arte è ciò che di più espressivo ha la nostra umanità. Ma la necessità non è universale, la mia nasce in quanto donna, come donna della mia età, perché bisogna sempre considerare una persona nel momento della sua vita, e come donna cresciuta senza radici. La mia arte è la mia casa, la mia patria, il mio continente. E nella casa più profonda della mia arte ho sempre pensato che se mi fossi espressa con sincerità avrei potuto parlare di tutto, di me, degli altri, della società, di tutti gli orrori che accadono nel mondo. Anche allo spettatore si dà conto di questa sincerità, di questa volontà di stare intero. Nel continente, nella casa, nella patria non sei da sola, sei con gli altri. Anche quando mi sono fatta trasportare dalla sensualità, dall’inconscio, dal piacere del fare, la responsabilità verso gli altri non è mai venuta meno. Tutto per me è sempre diventato un processo politico. L’arte è prima di tutto azione politica, per il semplice fatto di mettersi a disposizione dell’altro.
In più occasioni ha utilizzato la sua stessa immagine. Penso ai «Fotopoeamaçãos» degli anni Settanta, al celebre ritratto di famiglia «Por um Fio» (1976), al piu recente «Um momento, por favor». Come intende il mezzo dell’autoritratto? Anche in questo c’è una valenza politica?
Io sono un’artista che ama i cammini semplici, quelli che posso realizzare con le mie mani, senza grandi produzioni. In questo senso lavorare con la mia immagine era la cosa più immediata. Con l’analogico avevo chi mi aiutava ma, appena è arrivato il digitale, mi sono mossa in autonomia. Lo stesso desiderio di indipendenza espressiva mi ha portato all’utilizzo del mio corpo nelle performance. Quando vieni da una storia personale difficile, dalle guerre alle migrazioni, alle dittature, spendi molte energie nel fuggire dalle sofferenze. Risulta più facile, quindi, concentrarsi sul proprio corpo. Il mio corpo è mio, non devo chiederlo a nessuno. Quando l’ho utilizzato per parlare di questioni complicate e dure, il mio corpo è diventato quello dell’umanità. Il mio corpo al servizio di un’idea socio-politica.
E l’utilizzo della voce nei ritratti sonori come «Estado de Exceção» (2009-12) e «Dois Tempos» (2010-12)?
Io mi considero un cane senza pedigree, una «vira lata» come si dice in portoghese. Sono cresciuta in una cacofonia di lingue, di dialetti, di storie, di culture, e questa molteplicità di strati, di vite vissute e interrotte, emerge sempre. Parlando di lingue, per esempio, io ho studiato in Italia fino alla seconda media. A Scalea prima e a Bari dopo, i miei compagni di scuola quasi non parlavano italiano. Invece io lo parlavo molto bene perché mia madre, equadoregna, era stata educata in un ottimo collegio, lo parlava benissimo. Amava a tal punto Dante da decantare a memoria la Divina Commedia, ne citava i passaggi quando non mi comportavo bene e voleva riprendermi. Quando ero bambina sedevo al tavolo con 13 persone, c’era chi studiava medicina, chi farmacia, chi era filosofo. Io le ascoltavo discutere e litigare del postguerra, dei progetti di vita. Era molto «italiano», non so se sia così anche oggi; tutto era trasmesso a voce e quando trasmetti a voce tu trasmetti anche la potenza dei sentimenti che la voce porta. I suoni sono per me i sentimenti. Forse è questo che mi ha spinto a realizzare questi lavori. In questi, come con gli altri media, tutte le esperienze che sono state vissute dal mio inconscio, man mano, si sono manifestate.
Anche la poesia, scritta e visiva, è stata spesso un mezzo espressivo privilegiato, soprattutto in parallelo con l’esperienza della maternità. Può spiegarci che ruolo occupa nella sua produzione?
La poesia ci salva sempre, è la grande fata madrina per le artiste. Cominciai a praticare la poesia negli anni Sessanta. Appena diventata madre, mettevo i miei figli davanti a tutto. Pur avendo una grande necessità di esprimermi, ci tenevo che loro non vivessero mai le esperienze di abbandono che avevo vissuto io. Così, quando li portavo ai giardinetti, portavo con me un quaderno: lì nascevano schizzi e parole. La penna che scriveva era la stessa che disegnava. Il foglio bianco è il luogo in cui trasformi il tuo pensiero in verità. Il mio pensiero è fatto di sentimenti e il pensare si fa poesia.
Il primo approccio all’utilizzo dell’argilla è stato mediato dalla sua stessa figura, con la realizzazione di piccoli autoritratti del suo viso. La manipolazione della materia è indubbiamente l’atto trasformativo per eccellenza e, d’altra parte, la solenne ripetitività del gesto non può non richiamare le radici culturali agropastorali del Sud Italia con il rito comunitario della pasta fatta in casa.
Quando lavoro l’argilla, mi diverto, mi sento sempre la prima a farlo. Ovviamente la ripetitività delle mani che lavorano riporta alla mia memoria calabrese della pasta fatta in casa o alle orecchiette preparate per le strade di Bari. Proprio per quella sincerità di cui parlavo, sono cose che fanno parte di te, della tua struttura. Per questo non copierai mai, semplicemente la tua cultura verrà a galla. Quando ho iniziato a fare spazio alla forma dell’anima, lasciando la tecnica degli stampi, l’ho fatto perché mi interrogavo su quello che stavo cercando, solo dopo ho riletto nel mio agire tutta la mia cultura. In quel periodo stavo leggendo Uno nessuno centromila di Pirandello. Mi risuonava, perché quando tu ripeti una forma, ne otterrai similiari ma non identiche. In quei gesti c’era la mia ossessione, chi fossi, che cosa stessi facendo, che cosa, in quel momento, in Brasile, potevo rappresentare per me stessa. Ho capito che così come in natura non c’è una foglia che si ripete, fra gli umani non c’è una persona che si ripete. Allora mi sono riappacificata con il fatto di non avere un’identità del sud, ma un’identità cosmica, che mi riconnette con gli altri individui.
Possiamo quindi vedere nella sua ricerca un processo di guarigione, un atto di antropofagia in un cui incorpora sé stessa e la sua storia per riformulare la sua identità?
Ho percepito da subito che facendo arte stavo meglio. Emigrare, perdere la propria lingua, le proprie abitudini, possono essere esperienze molto dure, per tutti, piccoli e grandi. Non ho fotografie della mia infanzia in cui sorrido; sono nata nel 1942 e non c’era molto da ridere, no? Mi domandavo perché mi avessero messo al mondo e avevo sempre la faccia dura, come molti bambini figli della guerra. Ti trovi a vivere la morte della vita, non la vita. Anche la migrazione è stata molto forte. Quando entrai nella Scuola Nazionale di Belle Arti di Caracas avevo 16 anni, ero storta nell’anima e nella mente, e lì mi vidi felice. Il lato magico dell’arte è questa possibilità di godimento che dà a chi la fa e a chi ne partecipa. Perché è l’espressione più profonda che l’uomo ha di creare. Anche il modo in cui ho assecondato i diversi media, sperimentando, prendendoli e lasciandoli per poi ritornarci, come in una spirale, in fondo è vivere. La mattina ci si fa il caffè e poi si esce di casa e la mattina seguente ci si farà lo stesso caffè, ma avrà un sapore diverso perché in quel momento si è diversi. E allora il mio lavoro vuole agire in questo vivere le esperienze, sui piccoli movimenti che vengono trasformati in piccole opere d’arte che, poi, come un rizoma, si possono espandere. Col tempo, capisci che le cose che ti erano sembrate cattive, sono fantastiche. Io sono quella che sono oggi perché ho passato molte situazioni e sono felice di quanto la vita mi ha dato, è stata generosissima.
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