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Maria Helena Vieira da Silva, «Il corridoio o Interno» («Le Couloir ou Intérieur»), 1948, collezione privata

© Maria Helena Vieira da Silva, by Siae 2025

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Maria Helena Vieira da Silva, «Il corridoio o Interno» («Le Couloir ou Intérieur»), 1948, collezione privata

© Maria Helena Vieira da Silva, by Siae 2025

Come si è emancipata Maria Helena Vieira da Silva

Nelle opere della pittrice portoghese, in mostra fino al 15 settembre alla Collezione Guggenheim di Venezia, l’alternanza figurativo/astratto rimanda alla dicotomia interno/esterno, prigionia/liberazione. Le considerazioni dell'artista Giulia Andreani

Se da un lato la pratica artistica può sembrare emancipatoria, dall’altro dipingere in un atelier è una sorta di confino. Si può fare un parallelo tra Maria Helena Vieira da Silva e una sua contemporanea, la pittrice francese Valentine Prax. «Femmes d’intérieur»: vissero «una vita senza figli dedicata alla pittura», sposate con un artista, sottoposte allo sguardo più o meno benevolo dei loro colleghi maschi. «Faceva piccoli disegni su grandi fogli di carta», racconta Árpád Szenes, descrivendo la moglie. «Completamente rimbambita» è il sottotesto, perché «ragazza mia, non si lavora così». Giustificando la «piccolezza» di tali lavori, continua: «forse per timidezza, ma poi ne fece di molto grandi».

Szenes ritrae la pittrice nel 1940 nel suo atelier di gioventù a Lisbona. Vi appare pallida, con le occhiaie, raggomitolata dinanzi una tela su cavalletto mentre riempie diligentemente i quadratini di una labirintica scacchiera: «quadro nel quadro» dato che sta rappresentando il suo atelier. Szenes sembra voler sottolineare la posizione delle braccia della pittrice: ella immobilizza il proprio polso, che sia per il freddo, la fatica o il dubbio, non deve tremare. Non sorprende che l’espressione «tessitura penelopea» sia spesso utilizzata nei testi critici a lei dedicati: la tessitura, art appliqué femminile per eccellenza, ricorda il «travail de dame» così spesso attribuito alla sua generazione di artiste. Comunque sia, a differenza di Prax, Vieira da Silva fu spesso all’ombra dello studio, ma non del suo marito artista.

Maria Helena Vieira da Silva, «La Scala o gli occhi (La Scala ou Les Yeux)», 1937. Courtesy Galerie Jeanne Bucher Jaeger, Parigi-Lisbona. © Maria Helena Vieira da Silva, by Siae 2025

Pittrice-Sirena

«Bisognerebbe che lo spettatore dinnanzi all’opera si sentisse come di fronte a un essere che gli dia certezze».

Sebbene Vieira da Silva sia considerata una pittrice astratta, non ha mai abbandonato completamente la figura. Il movimento continuo tra figurativo e astratto appare come un’alternanza tra interno/esterno, tra prigionia/liberazione. La sua «vita pittorica» appare come un viaggio attraverso paesaggi urbani, portuali e marittimi, da cui spesso emergono le sirene, femmes d’exterieur per eccellenza, indomabili fino ad essere letali per gli uomini. Queste chimere scandiscono le varie fasi della sua arte.

In un primo inchiostro di china su carta del 1936, «La sirena» («La Sirène»), regalato all’amica collezionista Kathleen Granville, appare una sola sirena (si può intuire il seno, ma la figura, isolata, è piuttosto androgina) che galleggia e tiene in mano una lira. In «Le quattro sirene» («Les quatre sirènes»,1940), quattro sagome sembrano perdersi in onde astratte costituite di linee che attraversano la superficie in diagonale fino a rendere la quarta sirena un’ombra minacciosa. In una gouache e inchiostro su cartone del 1942 («Le sirene» [«Les Sirènes»]), eseguita durante l’inquieto esilio brasiliano, delle sirene sciamano sulla superficie bistrata, in un mare appena evocato da pennellate blu, emergendo dalle onde e sembrando cullare o rapire delle figure maschili naufragate.

Infine, il capolavoro del 1957, «Le sirene» («Les Sirènes», Digione, Musée des Beaux-Arts), grande olio su tela, sembra collocarsi in una serie di opere del dopoguerra tra cui «Grigio Corot» («Gris Corot», 1950), «Composizione 55» («Composition 55», 1955), «Notte bianca» («Nuit blanche»,1960, Parigi, Centre Pompidou), «L’equità» («L’Équité», 1966), in cui i cammei di toni neutri e le armonie tono su tono sopraffanno la violenza cromatica dei lavori precedenti. Ma se la maggior parte di questi paesaggi/astrazioni assume ancora la forma di campiture organizzate, in «Le sirene» i tocchi di bianco si sovrappongono a strati, come nuvole di fumo, fino a censurare e cancellare parti, forme e figure sottostanti. Mare e cielo si fondono come una nebbia marina, o un'esplosione in un’immensa nube catastrofica. Il titolo indica la presenza minacciosa o vittoriosa delle Sirene: esse confondono la percezione del quadro nello stesso modo in cui i personaggi mitologici disorientavano i navigatori.

Maria Helena Vieira da Silva, «Biblioteca (Bibliothèque)», 1949, Parigi, Centre Pompidou, Musée national d’art moderne/Centre de création industrielle, acquisizione dello Stato, 1951. © Maria Helena Vieira da Silva, by Siae 2025

Pittrice-Argonauta

«Nei miei quadri vediamo questa incertezza, questo terribile labirinto. È il mio cielo, questo labirinto, ma forse in mezzo ad esso troveremo una piccola certezza. Forse è questo che sto cercando».

La pittura è un linguaggio assertivo e tremante al contempo. Tra slanci d’audacia ed esitazioni, perché la storia dell’arte non era il proprio il posto in quanto donna, Vieira da Silva si è esposta, si è emancipata attraverso l’arte, ha preso il largo dedicando la sua vita alla pittura. Vieira da Silva «firmava solo con il cognome, volendo essere pittrice prima di essere donna». Nice try (bel tentativo). Ma le donne pittrici hanno un doppio fardello: il bagaglio della storia dell’arte occidentale, con tecniche e dogmi, e il bagaglio del genere, pieno di denigrante misoginia e impedimenti sociali. Dipingere «al femminile» richiede ancora e sempre una certa audacia. Perché di «grandi artiste» non ce ne sono mai abbastanza.

Nel grande «Le sirene», cielo e mare si confondono. L’arte è un viaggio (o un naufragio) in acque incerte. Vieira da Silva è stata Penelope, lavorando nella domesticità dello studio, Sirena, sradicandosi e rifiutando la convenzione della maternità, e Argonauta. La pittura è un vascello più o meno solido con cui esplorare spazi (finiti o infiniti, dal piccolo studio al mondo). Ne «Gli Argonauti» l’autrice Maggie Nelson ha cercato di esplorare il rapporto intimo con l’altro (l’amore) e il proprio rapporto con la scrittura (l’arte), tra introspezione, aneddoti personali ed esplorazione teorica. Possiamo trafficare un filo conduttore tra le due: l’incertezza.

«Temere l’assertività. Cercare continuamente di fuggire dal linguaggio “totalizzante”, cioè dal linguaggio che procede calpestando la specificità; rendersi conto che non è altro che un’altra forma di paranoia. Barthes aveva trovato una via d’uscita a questa giostra ricordando a sé stesso che “era il linguaggio ad essere assertivo, non lui”. È assurdo, afferma Barthes, provare a liberarsi della natura assertiva del linguaggio “aggiungendo a ogni frase un frammento di incertezza, come se tutto quel che scaturisce dal linguaggio possa far [tremare] il linguaggio stesso».

Viera da Silva ha tenuto stretto il suo fragile polso destro per dipingere tutta la vita, tremando il meno possibile e affermando sé stessa. Nel suo percorso di pittrice-argonauta, ha permesso di scuotere, leggermente ma con determinazione, le pareti sclerotizzate della storia dell’arte patriarcale. Riprendendo le parole di Nelson, «di sicuro ci sono parecchi oratori [o artisti, al maschile, Ndr] che mi piacerebbe veder [tremare], di più».

Tremate, tremate!

 

Testo tratto dal Catalogo della mostra «Maria Helena Vieira da Silva. Anatomia di uno spazio» edito da Marsilio

Giulia Andreani, 11 settembre 2025 | © Riproduzione riservata

Come si è emancipata Maria Helena Vieira da Silva | Giulia Andreani

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