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Veronica Rodenigo
Leggi i suoi articoliComposizioni intrise di forme labirintiche ritraggono lo spazio, privato e urbano, di Maria Helena Vieira da Silva (Lisbona, 1908-Parigi, 1992) a cui la Collezione Peggy Guggenheim dedica dal 12 aprile al 15 settembre un’ampia antologica destinata a spostarsi in autunno a Bilbao. Settanta opere (provenienti, tra gli altri, dal Centre Pompidou di Parigi, dal Guggenheim di New York e dalla Tate Modern di Londra) ricompongono l’intera sua carriera e la maturazione del suo linguaggio, influenzato da Cezanne e dalla avanguardie storiche, che alterna figurativo e astratto, fino a riconsiderarne un’indipendenza dal movimento informale. Flavia Frigeri, curatrice della mostra sottotitolata, non a caso, «Anatomia di uno spazio», ci illustra in anteprima il percorso di quest’artista formatasi tra Lisbona e Parigi, costretta a rifugiarsi durante il secondo conflitto mondiale a Rio de Janeiro con il marito Arpad Szenes, anch’egli artista, e poi ritornata nell’amata capitale francese che, come la sua città natale, animerà i soggetti delle sue tele.
Maria Helena Vieira da Silva è un’artista forse ancora poco nota nel panorama italiano. Può introdurci la sua figura?
Da Silva è tra quelle artiste che non sono state valorizzate quanto meritavano. Durante la sua lunga vita ha avuto molto successo e risonanza, e in Italia le fu dedicata anche una mostra alla Gam di Torino. Dopo la morte, nel 1992, la sua figura è passata però in secondo piano. In effetti, se si escludono Francia e Portogallo, non è molto conosciuta. Questa è una delle ragioni della mostra: un momento di riscoperta e celebrazione di una carriera di successo.

Maria Helena Vieira da Silva, «Le Jeu de cartes», 1937, collezione privata. Courtesy Galerie Jeanne Bucher Jaeger, Parigi-Lisbona. © Maria Elena Vieira da Silva, by Siae 2025
Come si sviluppò il suo linguaggio pittorico?
Perlopiù è un’artista astratta ma che ha sempre avuto un grande amore per la figurazione. Intanto studia l’anatomia umana e, al tempo stesso, si sente molto attratta dall’astrazione che traduce quasi come un mosaico. Tanti sui dipinti si compongono di piccoli quadrati che ricreano sia un’immagine astratta sia immagini in cui spesso s’inserisce la figurazione. Inizialmente parte da una rappresentazione dello spazio e per comprendere lo spazio che la circonda ne riduce l’ossatura a linee astratte. La sua opera inoltre s’interroga su temi ancora oggi rilevanti: che cosa significa abitare la città, che cosa essa rappresenti ma anche che cosa significhi essere una figura, un personaggio all’interno di una grande narrazione. Il momento della figurazione è ripreso dall’artista durante la Seconda guerra mondiale, quando vive un periodo di enorme disagio, sia fisico sia mentale. Da Silva è costretta a trasferirsi in Brasile insieme al marito ma, mentre lui vive questo soggiorno con enorme allegria e gioia, lei invece risente del clima torrido, della distanza dall’Europa, del tormento umano per gli accadimenti bellici. Riversa così questo tormento in alcune sue opere che, secondo me, sono le più straordinarie. Solo nel dopoguerra diventerà un’artista a tutti gli effetti astratta. Prima è come se avesse cercato una via di mezzo, in un esercizio molto elastico.
Perché l’attrazione nel ritrarre soprattutto luoghi, anche immaginifici, e luoghi urbani, come la Gare Saint-Lazare a Parigi?
Trovo interessante che Maria Helena sia un’artista di studio. Io ho avuto la percezione che abbia trascorso il 70% della sua vita all’interno di uno spazio delimitato. Al contempo dimostra un’attrazione non soltanto per Parigi e Lisbona, ma per l’idea di città in senso universale. L’attraggono il movimento, l’anatomia, i palazzi, le strade, queste linee che si creano come una geometria che la affascina. La affascina la città come luogo dove succede tutto, come un cuore pulsante. E quindi cerca di riprendere sia l’anatomia, sia la struttura del contesto urbano. In molti dipinti realizzati negli anni in cui rientra dal Brasile e torna a vivere a Parigi è come se ritrovasse un grande amore, come se volesse raffigurarla in tutte le sue molteplici forme: di notte, di giorno, i monumenti riconoscibili. Parigi a volte diventa Lisbona e viceversa. Lei non lo dice mai esplicitamente, ma è un po’ la mia interpretazione.
Quali sono i labirinti in cui l’artista dice di aver vissuto tutta la sua vita?
È il labirinto mentale, non il labirinto fisico. È quest’idea in cui i processi mentali non sono mai lineari e i rapporti umani neppure, che è tutto un processo. È un trovare sé stessi e non necessariamente riuscirvi.
Vieira da Silva fu tra le protagoniste della mostra «Exhibition by 31 Women» organizzata nel 1943 da Peggy Guggenheim nella galleria-museo newyorkese Art of This Century. Quale fu il rapporto con Peggy?
Non siamo ancora riusciti a stabilire se le due si siano conosciute. Dagli archivi sappiamo solo che Peggy acquistò una sua opera, che poi andò persa. Quindi l’artista non ha un rapporto diretto con Peggy. Mentre il rapporto più significativo fu con Hilla Rebay, artista e consigliera di Solomon Guggenheim nella sua collezione e che acquisì un’opera di Vieira nel 1937, «Composition» (1936). Fu una delle prime persone a sostenerla.

Maria Helena Vieira da Silva, «Composition», gennaio 1936, New York, Solomon R. Guggenheim Museum, Solomon R. Guggenheim Founding Collection, donazione. © Maria Elena Vieira da Silva, by Siae 2025