Still dal video «A war play» (2024) di Giulio Squillacciotti

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Still dal video «A war play» (2024) di Giulio Squillacciotti

Con Giulio Squillacciotti la guerra è una messa in scena

Nella Pinacoteca G.A. Levis di Chiomonte il progetto vincitore del «Pac 2022-23 - Piano per l’Arte Contemporanea» dell’artista e regista romano

A Chiomonte (To), nel cuore della Val di Susa, nella Pinacoteca G.A. Levis, è in corso la personale dell’artista e regista Giulio Squillacciotti (Roma, 1982), «A War Play», a cura di Arteco e Cripta747. La mostra, visitabile fino al 26 gennaio 2025, è il risultato di una research-based residency dedicata alla rilettura delle opere del paesaggista Giuseppe Augusto Levis. Il progetto è risultato vincitore del «Pac 2022-23 - Piano per l’Arte Contemporanea», promosso dalla Direzione Generale Creatività Contemporanea del Ministero della Cultura, e si inserisce in un programma di residenze d’artista seguite dalla Pinacoteca G.A. Levis di Chiomonte.

Giulio Squillacciotti, «A War Play» è un lavoro di ri-messa in scena che si sviluppa partendo dall’attivazione di una fotografia di guerra, a sua volta precedentemente simulata dal paesaggista Giuseppe Augusto Levis per la commissione di un dipinto che risale agli anni Venti del ’900. Che cosa l’ha spinta a seguire le tracce di questa vicenda?
Quello della messa e ri-messa in scena di elementi e documenti della Storia con la S maiuscola è un elemento caratterizzante della mia ricerca, così come del sistema di traduzione in forma di film del mio lavoro tout court di regista. Il caso specifico dell’attivazione delle fotografie di Levis si può riassumere con la necessità di voler mostrare visivamente un’allegoria narrativa volta a creare un filo rosso tra «un» passato e «il» presente che miri a espandersi dal contesto specifico valsusino, aspirando a generare un discorso più generale intorno alla questione della rappresentazione visiva della guerra, dei suoi paesaggi e dei suoi protagonisti, escludendo «l’azione bellica» in sé.

Diorami, documenti, video. Quale forma prende la sua ricerca nella mostra?
Posso dire che il lavoro in mostra è la mera giustapposizione di immagini girate su supporti differenti, tra soggetti privi di paesaggio (gli attori ripresi in pellicola 16mm mentre rimettono in scena la fotografia) e paesaggi privi di soggetto (i diorami di guerra allestiti al Forte di Exilles, girati in digitale con la tecnica della steady-cam, quindi fluida e super stabile). Ai due piani visivi si aggiunge un terzo livello, quello sonoro: una partitura creata ad hoc sulle immagini da Vittorio Giampietro, compositore e sound designer romano.

Per Paul Virilio la Prima guerra mondiale costituisce uno spartiacque nella storia delle rappresentazioni, poiché per la prima volta la guerra veniva fotografata e filmata, oltre che narrata. Oggi siamo abituati a scontrarci con le possibilità offerte dal digitale nella costruzione e messa in scena della realtà, ma il controllo dei mezzi d’informazione e di rappresentazione ha sempre influenzato la percezione degli eventi storici. Qual è la storia delle fotografie di Levis e in che cosa consiste la sua interpretazione?
È forse proprio quello della rappresentazione visiva il principale nodo d’interesse attorno al quale si è sviluppata la mia ricerca durante la residenza in primis e ha trovato consistenza nel film realizzato. La questione della rappresentazione della guerra è soprattutto oggi un tema attuale, dalle prime guerre documentate ad oggi, la Prima e Seconda guerra mondiale, le guerre civili europee (si pensi alla famosa e discussa foto di Robert Capa del soldato repubblicano sul fronte Spagnolo ritratto nel momento di essere colpito), la prima Guerra del Golfo con il ruolo del giornalista embedded, le primavere arabe con i fotografi indipendenti liberi di ritrarre senza limiti e i guerriglieri stessi a narrare le vicende con i loro telefoni, fino ad arrivare alla guerra trasmessa in diretta in Ucraina o, ultimo, il genocidio del popolo palestinese per mano dell’esercito israeliano, auto filmato da entrambe le parti, che ci arriva sulle storie di Instagram tra influencer, gattini e promozione di prodotti. Nonostante la veridicità di queste immagini, tendiamo a fidarci di più di quelle generate. Ecco, il ragionamento prendeva spunto da queste riflessioni, ritrovate poi nel contesto valsusino (dal passaggio del conquistatore Annibale alle reggenze francesi o italiane che controllavano i forti della valle, dalle trincee della Prima guerra mondiale alle brigate partigiane della Seconda, sino alla resistenza alla Tav) per poi tornare a Levis. Le fotografie realizzate agli inizi degli anni Venti da Levis sono esempio massimo di questa questione della rappresentazione e della messa in scena. Sappiamo che il pittore parte per la guerra come soldato, ma, grazie alla sua classe sociale, non siamo certi che arrivi alla prima linea o che si ritrovi a combattere nelle trincee. Una volta tornato, per rispondere a un’importante committenza, chiede ai suoi contadini di aiutarlo a ri-mettere in scena qualcosa per come, credo, lo avesse immaginato. E quindi in una serie di scatti si colgono carretti trainati senza cannone nel giardino di casa, gli assalti fuori delle trincee sui muretti delle vigne e via dicendo. Fino alle pose, studio per i dipinti di grande formato, su cui è cascato il mio occhio. L’intento della parte girata in pellicola che si ritrova nell’opera video era quello di ri-creare il tentativo, in movimento, di costruire una scena quanto più simile a quella delle fotografie, senza che la posa «originale» venga mai raggiunta.

Il suo lavoro si inserisce in un discorso attuale. Crede che sia importante che l’arte oggi si occupi di rappresentazione del conflitto?
Sono dubbioso sul fatto che l’arte debba assolvere a certi «compiti». Credo piuttosto nelle esigenze e intenzioni di chi fa arte, non in accezione cronachista, ma in chiave allegorica e di costruzione di filtri sulla realtà, in questo caso del «conflitto». Mi sembra evidente come, anche senza ricorrere al digitale ma unendo narrativa e costruzione visiva fittizia, si possa costruire una realtà credibile che celi una verità «altra» o «la» Verità. Se, per dire, è bastato esternare a parole l’esistenza di armi di distruzione di massa per bombardare l’Iraq di Saddam, celando anche la necessità di prove visive, non mi stupisce di come, ad esempio, l’esercito israeliano abbia creato oggi dei video diari con immagini decontestualizzate in cui si sia affermata la convinzione che bombardare gli ospedali o i campi profughi sia stata la giusta mossa per combattere i guerriglieri di Hamas.

Il suo intervento nella Pinacoteca Levis, come del resto tutto il suo lavoro, crea ponti tra passato e presente: non si limita a ricalcare la storia o a fornirne una ricostruzione, ma ne amplifica i confini attraverso l’utilizzo di costruzioni e narrazioni fittizie. La finzione può aiutare ad aprire nuove prospettive sul nostro presente?
Essendomi formato in un contesto accademico storico, storico-artistico o comunque umanistico e quindi di ricerca atta alla costruzione di tesi in cui l’elemento fittizio sia da escludere a priori, pena la non solidità di una tesi, comprendo a pieno lo sfogo di certi scrittori di ricorrere alla costruzione u-cronica degli eventi. A me non interessa molto in realtà la creazione di «mondi paralleli» o giocare con il «e se…» (e mi viene in mente il recente primo premio al Booker Prize Il canto del profeta di Paul Lynch). Mi interessa creare parallelismi tra contesti o, più semplicemente, avvicinare le cronologie o inserire in sfondi reali delle personalità non esistenti, ma potenzialmente reali. Il corso della storia mi piace lasciarlo per come sia andato, in fondo la storia è comunque scritta da persone.

Particolare di «A war play» (2024) di Giulio Squillacciotti. © Claudia Ferri

Barbara Ruperti, 15 luglio 2024 | © Riproduzione riservata

Con Giulio Squillacciotti la guerra è una messa in scena | Barbara Ruperti

Con Giulio Squillacciotti la guerra è una messa in scena | Barbara Ruperti