Nunzio, 1988

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Nunzio, 1988

Con Nunzio Sargentini era tornato a fare il gallerista

Nella Galleria dello Scudo 15 opere dell’artista abruzzese risalenti agli anni Ottanta, ora della collezione del mercante romano

1986: si apre una delle ultime Biennali di Venezia affidate alla direzione di uno storico dell’arte, in quel caso Maurizio Calvesi; sarebbero venuti in seguito i critici (Achille Bonito Oliva, Harald Szeemann, Germano Celant) e poi sarebbe iniziata la perdurante era dei «curators». Era l’epoca in cui la storia dell’arte costituiva il solido retroterra di chi d’arte, inclusa quella contemporanea, scriveva, e le mostre stesse nascevano come forma di «scrittura visiva». Calvesi, in una Biennale dedicata al tema, ancora attualissimo, «Arte e Scienza», volle che la giovane Adalgisa Lugli si occupasse, nella sezione «Arte e Alchimia» per cui quell’edizione è ancora oggi ricordata, di un capitolo sulla Wunderkammer. Erano gli anni in cui Maurizio Fagiolo dell’Arco spaziava da Bernini a Pino Pascali e Giuliano Briganti seguiva con attenzione il lavoro di un giovane abruzzese, Nunzio di Stefano, in arte Nunzio, stabilitosi con la famiglia a Roma per iscriversi all’Accademia di Belle Arti, allievo (come lo erano stati lo stesso Pascali e Kounellis) di Toti Scialoja

«È forse un segreto senso di colpa o di acuta consapevolezza (colpa per il principio d’ordine tradito, consapevolezza della fecondità del disordine) che ci spinge talvolta a trovare esasperanti, noiosi o inutili quei prodotti dell’umana attività che ci riconducono a una tradizione di ordine, di armonia, di proporzione, di simmetria, di tautologia fra causa ed effetto; a quella tradizione, voglio dire, che è la base del nostro occidentale essere e pensare (...). Se siamo portati a credere che arrivi a noi come un segnale affidato all’etere da un pianeta ormai spento, dobbiamo pur ammettere che essa trova nell’istinto creativo echi ancora così profondi da risvegliare la nostra coscienza all’idea di un ordine cosmico (che di questo alla fine si tratta), a un principio che informi nella stessa misura il movimento dei corpi celesti e il più semplice prodotto del lavoro umano. Come simbolo, naturalmente, ma come simbolo che ha il valore di un modello». Così scriveva Briganti, a proposito di storia e di radici culturali, nel catalogo della seconda mostra (1986) di Nunzio all’Attico, la galleria di Fabio Sargentini che proprio con Nunzio, nel 1984, aveva riaperto i battenti in via del Paradiso, dopo la chiusura nel 1978. 

Quella seconda personale si svolgeva nell’imminenza della prima partecipazione dell’artista alla Biennale di Venezia, dove gli viene conferito il Premio come miglior giovane invitato. Fu anche l’edizione che sanciva l’affermazione di quella che sarebbe passata alla storia come la Scuola di San Lorenzo, con gli inviti a Bianchi, Ceccobelli, Dessì e Gallo, i quali avevano i loro studi a Roma nell’ex Pastificio Cerere, come lo stesso Nunzio. Quest’ultimo partecipava in quell’occasione alla sezione «Aperto», pensata appunto per gli emergenti, ed è suggestivo, ora, che sia Claudio Spadoni, tra i membri del comitato scientifico di «Aperto 86», uno degli autori dei saggi in catalogo della mostra che la Galleria dello Scudo (altra congiunzione storica: è la galleria attualmente di riferimento per l’opera di Toti Scialoja, che definì Nunzio «un figlio») dedica alla fase iniziale dello scultore. 

Si tratta di 15 opere provenienti dalla Collezione Fabio Sargentini, datate dal 1982 al 1989 e ora esposte dal 14 dicembre al 29 marzo 2025. È il periodo in cui l’artista articola, spesso a parete, forme orientate verso la geometria e la simmetria, che di lì a poco troveranno compimento nelle strutture e nelle composizioni in legno combusto, laddove la scultura diventa segno e struttura «architettonica», come documentano in mostra due opere della fine del decennio. «Talismano» e «Meteora» sono due delle tre sculture presentate nella citata Biennale. In questi lavori fondamentali per il transito verso la piena maturità, al gesso delle prime opere si è sostituito il legno sul quale l’autore innesta ritagli di piombo, materiale «inerte, indifferente alla luce», notava Briganti, risvegliato però dal rapporto con la fibra vegetale. Materiale alchemico, anche, il piombo, come scriveva Bonito Oliva, riportandoci così a quella straordinaria Biennale. Un’alchimia, dunque, capace di trasmutazioni materiche e formali, così, come nell’amato Dante, sottolinea Nunzio, «la parola diventa forma, si espande, diventa intraducibile». In catalogo, oltre al testo di Spadoni, un saggio di Elena Abbiatici e un’intervista con Fabio Sargentini.

«Meteora» (1986) di Nunzio. Foto: Mimmo Capone

Franco Fanelli, 13 dicembre 2024 | © Riproduzione riservata

Con Nunzio Sargentini era tornato a fare il gallerista | Franco Fanelli

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