Una carriera all’insegna di forme geometriche che catturano e riproducono il movimento di un corpo nello spazio. Da sessant’anni Marcello Morandini (Mantova, 1940) riproduce il mondo reale in tre dimensioni, attraverso forme «dall’evidente assurdità funzionale». Così il critico d’arte Gillo Dorfles descriveva i soggetti delle sue opere nel catalogo della Biennale di Venezia del 1968, considerate singole «tappe d’un divenire» dotate di un «fascino matematico, ma tuttavia d’una matematica assurda, dove la precisione è in funzione della meraviglia».
Nella propria sede torinese, la galleria Mazzoleni ha inaugurato ieri, 6 marzo, «Geometrie senza tempo» (fino al 28 giugno), una personale dedicata al lavoro dell’artista mantovano contraddistinto da rigore geometrico e minimalismo cromatico, nonché «frutto parziale di una ricerca “calvinista”, che ha segnato nel tempo anche la qualità morale della mia vita», come lui stesso descrive.
Sin dagli esordi, l’arte di Morandini, astratta, sistematica e razionalista, ha privilegiato la struttura e la forma, lasciando comunque spazio a variazioni e trasformazioni, ma sempre in modo metodico. La forza espressiva non attinge solo dalle creazioni e dalle teorie artistiche di inizio Novecento, ma anche dai movimenti a lui contemporanei come Werkbund, Bauhaus, De Stijl e il Manifesto dell’Arte Concreta. La scelta invece di prediligere una tavolozza costituita da bianco e nero, lo spinge a sperimentare con gli elementi geometrici, incrociandoli, torcendoli e sovrapponendoli, come negli avvolgimenti di «494B-2005» o in «98D-1971_2009», ma anche nella scultura «224A-1975». A partire dagli anni Ottanta, realizza progetti architettonici in Germania, Singapore e Malesia oltreché a Varese, città in cui vive dal 1946. «Tutte le mie opere d’arte, afferma l’artista, nascono sotto il segno dell’architettura e anche il settore del design in gran parte può definirsi un'architettura dell'uso quotidiano». Alcuni esempi di questa ricerca sono la facciata di 220 metri della Fabbrica Thomas-Speicherdorf, in Baviera (1984) e il più recente Das Kleine Museum-Weissenstadt, 2007.
«“Geometrie senza tempo”, nelle parole di Morandini, è un’occasione per chiarire e mostrare l’humus costruttivo di 61 anni di dedizione al mondo della geometria e ad ogni forma infinita che la compone. Un mondo progettuale bianco e nero, razionale e coerente, che ha attraversato e plasmato ogni decennio del mio lavoro». L’esposizione è a cura dall’artista e dalla Fondazione Marcello Morandini, nata nel 2016 (la cui sede è aperta a Varese dal 2021) con l’obiettivo di creare un’istituzione consacrata all’artista, per conservare e valorizzare la sua arte, e al tempo stesso promuovere la conoscenza dell’Arte Concreta e Costruttivista Internazionale.
Parallelamente, una collettiva dedicata a «Il fascino del mito» (6 marzo-28 giugno) porta in galleria una selezione di opere che reinterpretano temi e motivi mitologici attraverso uno sguardo contemporaneo, un viaggio
nel tempo che sfida le convenzioni cronologiche per approdare in una dimensione sospesa. Il linguaggio di Giorgio de Chirico, Alberto Savinio, Giulio Paolini, Salvo, e Jorge Méndez Blake, ricco di enigmi e citazioni, è per l’occasione accompagnato da reperti archeologici.
Il dechirichiano interrogativo «Che cosa amerò se non l’enigma delle cose?» lega e collega le opere presenti in mostra come «Il trofeo con la testa di Giove» (1929-30) del maestro surrealista e «Jeux d’Anges» (1930) di Savinio. «Finché il modello può essere visto in maniera nuova, perché la definizione non è conclusa, perché si dovrebbe interrompere la ricerca?», si chiedeva invece Salvo. Paolini e Méndez Blake interrogano diversamente il rapporto tra il presente e il passato, affidandosi al concetto di riproduzione, citazione e alterità.
Nessuno di questi cinque artisti utilizza il riferimento al passato come esaltazione nostalgica, bensì ne fanno strumento per interrogare il presente e proiettarsi verso il futuro.

Giulio Paolini, «L’altra figura (The Other Figure)» (1983)