La nuova generazione di fotografi e artisti visivi guarda alla contemporaneità e ai suoi temi più critici con una consapevolezza e un desiderio di sperimentazione inediti. «Futuro presente» vuole dar voce ai giovani talenti che rappresentano il futuro della fotografia; un futuro che è, forse, già presente. Sono infatti più urgenti che mai le tematiche affrontate dal lavoro di questi artisti visivi: dal cambiamento climatico alla decolonizzazione dello sguardo, dall’utilizzo degli archivi storici alla rilettura delle classiche pratiche di documentazione fotografica.
Per Ece Gökalp lo slancio verso la fotografia arriva dalla volontà di indagare la connessione da lei instaurata con un tema o un evento storico. Dalla geopolitica e l’ecologia, alla salute mentale, l’eredità culturale e il femminismo, la fotografa si interessa alle relazioni che accomunano soggetti apparentemente slegati tra loro. In occasione della sua personale presso il Foam di Amsterdam, «After Anahit» (fino al 3 settembre), l’abbiamo intervistata per districare le narrazioni immortalate al suo interno e celebrare il contributo dell’artista a «Kismet», la serie di esposizioni ideata da Ahmet Polat con il supporto del museo olandese per onorare «le prospettive della cultura visiva turca attraverso la lente dei suoi creativi visuali».
Che ruolo ritiene che la fotografia abbia adempiuto nella costruzione della storia occidentale?
L’abilità di «fissare» la rappresentazione di un momento è un’azione che detiene un forte potere narrativo, potere che può sfociare in manipolazione: di fatto, la fotografia ci illude di raccontare «la verità». Supportare affermazioni ambigue attraverso scatti costruiti, così da farle passare per dati oggettivi, è una prerogativa di politici e storici. Tuttavia, è bene ricordarsi di come la fotografia sia riuscita a cambiare la storia in meglio, come nel caso di Ernest Cole e la sua documentazione dell’apartheid, esposta di recente proprio al Foam.
Il medium fotografico plasma la nostra visione del mondo. Perché bisogna esserne consapevoli?
Mi viene in mente lo scatto di Itsuo Inouye del soldato iracheno che si arrende all’esercito statunitense. Quella fotografia ha diversi tagli e ciascuno racconta una storia diversa: in uno vediamo un soldato americano puntare una pistola alla testa di quello iracheno; in un altro, un membro dell’esercito statunitense gli offre dell’acqua. Eppure, entrambe le cose stavano accadendo nella stessa immagine. Sono tanto stupita dalle possibilità offertemi dalla fotografia quanto diffidente nei confronti del suo lato oscuro. Se non altro, questo mi aiuta a capire come funziona la società odierna.
La sua personale «After Anahit» mette «a fuoco» la complessità della storia turca. Come nasce questo progetto?
Nel 2019, due cacciatori di tesori hanno scavato il sito di Dipsiz Göl, situato nel nord-est della Turchia, per cercare l’oro (presumibilmente) nascosto dalla Legio XV Apollinaris dell’Impero Romano. Con il trapelare della notizia, molti si sono indignati nello scoprire che l’operazione era stata legittimata dalle autorità locali. La presunzione e l’ignoranza che stanno riscrivendo il destino della Turchia sono preoccupanti, ma l’appropriazione culturale non è un fenomeno solo turco: la colonizzazione occidentale ne è un esempio lampante.
Tra le immagini di «After Anahit», quale sceglie come «emblema» della serie?
Probabilmente «Anahit is frozen in the wrong past», una stampa di una composizione creata a partire da una scansione 3D del busto di Anahit. Mentre mi chiedevo perché qualcuno volesse scavare proprio lì, ho scoperto che mesi prima degli archeologi avevano individuato la base della Legio XV Apollinaris: è così che si sparse la voce dell’oro nascosto sotto il lago presente nella regione, voce che causò la sua prosciugazione dopo 12mila anni. Già nel XIX secolo un uomo aveva rinvenuto un busto antico nella stessa area. Il collezionista Alessandro Castellani lo contrabbandò in Italia per poi venderlo al British Museum.
Sebbene sul sito sia descritto come «testa di bronzo da una statua di culto della dea Anahit nelle vesti di Afrodite o Artemide», il busto è esposto nell'ala romana del museo come «Afrodite»: quest’incongruenza è il fulcro del progetto. Così come il busto non ha diritto al suo nome, alla sua cultura, il lago vicino al quale è emerso non ha diritto di vivere. La serie parla di come la presenza, l’eredità e l’ecosistema di questi due elementi siano stati cancellati e ri-appropriati, cercando tracce del loro passaggio nella geografia locale. Nel lavorarci, ho cominciato a sentirmi «After Anahit»: come se stessi inseguendo la dea per mostrare ciò che è accaduto dopo la sua sparizione.
Quale reazione vorrebbe suscitare in coloro che visitano la mostra?
Spero che faccia spazio all’ispirazione e al confronto; che Anahit e Dipsiz Göl evochino emozioni nel pubblico. Voglio dimostrare che possiamo liberarci dalle dottrine che ci circondano: sono una nipote di nonni balcanici cresciuta come una donna turca. Una turista agli occhi degli abitanti della regione dove ho scattato il progetto. Faccio parte di una generazione determinata ad affrontare il passato collettivo e sfidare le voci che ne dominano la narrazione.