L’happening «Yard» (1961) di Allan Kaprow riallestito nel Macro, 2024

© Allan Kaprow Estate. Cortesia di Allan Kaprow Estate e Hauser & Wirth. Foto Agnese Bedini - Dsl Studio

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L’happening «Yard» (1961) di Allan Kaprow riallestito nel Macro, 2024

© Allan Kaprow Estate. Cortesia di Allan Kaprow Estate e Hauser & Wirth. Foto Agnese Bedini - Dsl Studio

Gli pneumatici di Kaprow sessantatré anni dopo

«Yard» (1961), il più celebre happening dell’artista americano, ha perso lo sprint nel cortile del Macro di Roma

«Ma quanti saranno?». Non so perché la tipa lo chieda proprio a me, anche un po’ nervosa, all’inaugurazione del re-enactement di «Yard», indicando il mucchio di pneumatici sversati nel cortile del Macro. Citazione perfetta (se tale), dall’episodio «Le vacanze intelligenti» (1978) in cui (non fate finta di non ricordarvelo) Alberto Sordi allibisce all’installazione di pietre a pavimento di Richard Long alla Biennale di Venezia. La moglie invece (Anna Longhi) reagisce prontissima: «Sono settantatré!» («semo fruttaroli… lei conta tutto, n’aa frega nessuno!», spiega lui).

Sono fra le più iconiche in assoluto le foto di Ken Heyman a «Environments, Situations, Spaces», dove nel maggio del 1961 venne esposto per la prima volta «Yard», nel cortile appunto della galleria di Martha Jackson a New York. Le centinaia di pneumatici usati (a quanto pare circa 800, signora), ripresi dall’alto, occupavano per intero lo spazio con un senso di saturazione magmatica che un po’ si perde, ora, guardando invece al livello del terreno il mucchio che, collocato al centro del cortile, lasciando ai margini congruo spazio ai visitatori e ai loro long drink, è contenuto da una «cornice», virtuale, allora assente. L’avanguardia di sessant’anni e passa fa s’è fatta da un pezzo «arte da museo» (eccoci qui, infatti): ma non s’è del tutto persa, a quanto pare, la sua capacità di stupire. 

Uno spettatore più scafato si lascia sfuggire un «datato» che però, nel mio idioletto, non è per forza diminuente: queste gomme «fanno data» come poche opere loro contemporanee, rinviando per sineddoche al periodo d’oro dell’happening e dell’environment. Era stato proprio Kaprow il teorico di quella svolta. Due anni dopo la morte di Jackson Pollock, nel ’58, ripeteva Kaprow una famigerata battuta di Poussin su Caravaggio: «Ha fatto dipinti magnifici, ma ha anche distrutto la pittura». Due le strade, a quel punto: scimmiottare l’Espressionismo astratto considerandolo «pittura» come tutte le altre; oppure enfatizzare la «danza» del dripping con l’artista dentro il quadro: non erano più «quadri», quelli di Pollock, bensì «environment». Il passo successivo consisteva nell’ammettere, in questo spazio, non solo l’artista ma anche il suo pubblico. Era nato così l’happening: fratello gemello dell’environment, e infatti da esso, il più delle volte, indistinguibile.

Non lo ricorda abbastanza spesso la critica d’oltreoceano, ma prima di Kaprow c’erano già stati i visionari «ambienti» di Lucio Fontana, che datano almeno al ’49 e che a loro volta richiedono allo spettatore una partecipazione attiva (lo si vede nella bellissima mostra curata in parallelo da Marina Pugliese, Andrea Lissoni e Francesco Stocchi al MaXXI, «Ambienti 1956-2010. Environments by Women Artists»): solo qualche anno dopo la stagione di environment e happening gli «Ambienti» di Fontana verranno «scoperti», nel 1966, al Walker Center di Minneapolis. Nel ’61 i visitatori erano invitati a camminare sopra i copertoni, prendendoli e lanciandoli dove volevano. 

All’inaugurazione romana di «Allan Kaprow, Yard» (5 settembre-16 febbraio 2025), il dress code è ancora estivamente informale e qualcuno fra i più giovani si azzarda, ma gli pneumatici usati sporcano oggi come sessant’anni fa, e poi c’è il rischio di farsi male scivolando fra gomma e gomma; presto prevale un atteggiamento pensosamente, classicamente, contemplativo. 

C’è da chiedersi quanto abbia pensato Luca Lo Pinto (prossimo al congedo dopo un quinquennio di risorse scarse e direzione fantasiosa, con «picchi» notevolissimi, Prini, Serafini, Benassi, proprio in coda) a una specificità «romana» dell’opera, inserita pure nella sua mostra di chiusura (à la Vincenzo Agnetti intitolata «Un museo dimenticato a memoria»). Un po’ tutte le grandi città sono contorniate da terrains vagues postindustriali, aree di dismissione dove si sversano gli scarti del processo produttivo, il rimosso periferico degli scintillanti centri urbani. 

Ma Roma, si sa, eccelle per dismisura fra Grande Bellezza e Grande Schifezza, e basterebbe farsi un giro nelle Terrenere oltre il G.R.A. per trovarne quanti si voglia, di Kaprow «in natura», negli «smorzi» (come, con espressiva voce postromanesca, vengono qui definiti sfasciacarrozze et similia). Nello stesso 1961 la sempre più totalitaria civiltà-inciviltà dell’automobile veniva già celebrata-denunciata dal «gemello» di Kaprow, Jim Dine, che, tre anni prima dei funebri «Car Crash» di Warhol, metteva in scena l’incidente dal quale lui si era salvato, ma che aveva ucciso il suo migliore amico. E se un altro e più diretto precedente di Kaprow è rappresentato dagli assemblage di Robert Rauschenberg, viene da pensare che forse la prima traccia del tempo nuovo l’avesse lasciata lui, col «Tire print» che risale al ’53. A guidare l’auto sopra le carte preparate dall’artista, imprimendovi quella memorabile «strisciata» di pneumatico, c’era John Cage (che di Kaprow, guarda caso, sarà docente). Ma oggi quella traccia di gomma usurata allude, mi pare, a un viaggio appena cominciato. Arrivederci, Luca.

Veduta dell’installazione «Yard» (1961) di Allan Kaprow alla Martha Jackson Gallery, New York. Cortesia di Research Library, The Getty Research Institute, Los Angeles, California e l’Allan Kaprow Estate © Ken Heyman

Andrea Cortellessa, 02 ottobre 2024 | © Riproduzione riservata

Gli pneumatici di Kaprow sessantatré anni dopo | Andrea Cortellessa

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