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Una veduta dell’allestimento della mostra «Italian Days» alla Galleria Gagosian di Roma

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Una veduta dell’allestimento della mostra «Italian Days» alla Galleria Gagosian di Roma

I giorni italiani di Richard Avedon proseguono a Roma

Da Gagosian sono allestite opere dalla serie di fotografie scattate nel Bel Paese, mai presentata integralmente prima d’ora, qui in dialogo con alcuni ritratti iconici dell’artista newyorkese

Nell’autoritratto realizzato a New York nel 1963, Richard Avedon (New York, 1923-Texas, 2004) si ritrae con la sua Rolleiflex in uno scatto che utilizza lo specchio come interfaccia narrativa. È un’immagine che contiene una domanda più che una risposta: chi è colui che ritrae? Il punto di vista è frontale, ma la cornice è sbilanciata. A sinistra domina una forte luce sfocata, che investe parzialmente il volto dell’autore, mentre il resto dell’immagine è attraversato da un chiaroscuro atmosferico e polveroso. Questa luce, proveniente da una lampada da studio, non è controllata in senso classico, ma appare invasiva, quasi disturbante, come un minuscolo sole artificiale troppo vicino all’inquadratura. Avedon appare serio, concentrato, con un’espressione che lascia trasparire un lampo di inquietudine. Ha un paio di occhiali appoggiati sulla fronte, che duplicano il gioco degli «occhi» della Rolleiflex e intensificano il tema dello sguardo che osserva sé stesso attraverso un dispositivo, un gesto riflessivo ma anche tautologico. Tutto parla di una verità che si costruisce nel contrasto, tra luce e oscurità, tra presenza e maschera, tra controllo e improvvisazione. 

Questo autoritratto, pur nella sua apparente immediatezza, è una meditazione sull’identità come atto performativo e sull’irriducibile distanza tra sé e la propria immagine. Una distanza che Avedon, con la sua maestria, non cerca mai di colmare, ma solo di rendere visibile. E proprio questa consapevolezza dello sguardo e della sua costruzione, questo esercizio critico sulla relazione tra chi guarda e chi è guardato, è il fondamento che innerva anche la mostra «Italian Days», ora in corso alla Galleria Gagosian di Roma (fino al 27 giugno). C’è un momento preciso, rintracciabile in ognuna delle immagini raccolte nell’esposizione, in cui l’istinto inizia a farsi metodo, in cui la spontaneità comincia a ordinarsi in visione. È il momento in cui Avedon, ventitreenne e già inquieto, tocca il cuore di un’Italia ancora frastornata dalla guerra e ne distilla, con la macchina fotografica, un primo abbozzo del suo inconfondibile linguaggio. 

Come nell’autoritratto, anche nelle immagini realizzate nel dopoguerra l’autore è parte implicita della scena: osserva, studia, assorbe e non si nasconde dietro l’obiettivo, in una nazione ancora ferita e precaria, imperfetta e scomposta, ma che è viva. Si muove con un’attenzione che è insieme documentaria e d’indagine di questioni interpretabili osservando i volti e i gesti delle persone. E proprio in questo frammento mobile di umanità, Avedon sembra trovare la misura di sé. La composizione, il ritmo dei corpi, la luce che taglia le piazze e i volti, tutto prelude alla grammatica visuale che diventerà il suo marchio di fabbrica. In filigrana, in queste immagini italiane, pulsa già il battito dei futuri ritratti frontali e spietati, realizzati nei decenni successivi. Ma qui, diversamente da allora, il fotografo non è distante. È immerso. 

Richard Avedon, «Italy #3, Rome, July 1946». © The Richard Avedon Foundation. Courtesy Gagosian

Richard Avedon, «Italy #10, bellboy, Eden Roc Hotel, Taormina, Sicily, September 1947». © The Richard Avedon Foundation. Courtesy Gagosian

L’intera serie «Italy» (1946-48), mai presentata integralmente prima d’ora, dialoga con alcuni ritratti iconici. La mostra, curata con sottigliezza da Cécile Degos, non è una retrospettiva, ma una mappa di connessioni, costruita secondo un criterio di rispecchiamento, di dialogo formale e gestuale tra fotografie distanti nel tempo, ma accostate con cura. La struttura dell’esposizione invita a una lettura comparativa. La maggior parte delle fotografie realizzate in Italia trova, come in un controcanto, un gesto o una posa che riaffiora altrove, anni dopo. Il ragazzo romano che nel 1946 si copre il volto tra i sampietrini assolati sembra anticipare lo sguardo basso e assente di Samuel Beckett; la figura danzante colta a Palermo nel 1947 riecheggia nel movimento di Audrey Hepburn in «Funny Face»; la tristezza trattenuta in un volto di strada prefigura l’abisso emotivo di Marilyn Monroe. Il saluto incerto di un giovanissimo facchino dell’Eden Roc Hotel di Taormina, che nel 1947 porta la mano destra alla fronte, viene collegato al gesto di Avedon nel suo autoritratto del 1980, dove le mani vengono alzate all’altezza della testa. Il tuffo di un ragazzo da una nave ormeggiata a Venezia nel 1948 viene posto accanto a una fotografia del 1963, in cui un uomo regge in equilibrio un bambino sul palmo della mano, in una spiaggia di Santa Monica. Entrambe le immagini sono dominate da una tensione verticale: corpi sospesi, protesi verso l’alto o verso il vuoto, che paiono danzare sulla linea sottile tra leggerezza e gravità. 

Le fotografie della serie italiana non sono esercizi giovanili, ma la testimonianza di una trasformazione in atto e in divenire. Se più tardi Avedon maturerà un distacco professionale nei confronti dei suoi soggetti, utile a coglierne con lucidità le molteplici sfaccettature, in Italia è ancora coinvolto, quasi contaminato. Non media, non dirige. Partecipa. E lo fa con uno sguardo che non idealizza né compatisce, ma interroga. L’urgenza è quella stessa che si avverte nel suo autoritratto del ’63, dove aleggia il desiderio ossessivo di comprendere la superficie per forzarla a rivelare una verità più profonda. Anche i volti che guardano verso l’obiettivo (che siano quelli incontrati per strada a Palermo o dei personaggi aristocratici della sala da ballo Volpi a Venezia o lo sguardo diretto e tagliente di Michelangelo Antonioni) sono allestiti uno accanto all’altro come frammenti della stessa natura umana, come manifestazioni diverse ma coese di una medesima origine emotiva e formale. Avedon li rende equivalenti, li spoglia di contesto, li accosta secondo logiche interiori più che sociali. Ogni volto è qui chiamato a sostenere lo sguardo della macchina fotografica, come se provenisse dalla stessa matrice profonda, oltre ogni distinzione di classe, ruolo o circostanza. Ecco allora che l’autoritratto e il ritratto altrui si specchiano. Quando fotografa sé stesso, Avedon cerca le stesse incrinature che intravede nei volti sconosciuti dei passanti italiani o nelle maschere celebri dei divi americani. Ogni immagine, in fondo, è un autoritratto spostato, dislocato in un altro corpo. La fotografia, per l’autore americano, non è mai solo rappresentazione dell’altro, ma interrogazione sull’io attraverso l’altro. E in «Italian Days», questo principio appare con una forza originaria e mostra un Avedon ancora in divenire, ma già capace di toccare, con precisione chirurgica, quel punto in cui l'immagine smette di essere cronaca e diventa rivelazione. Dove il fotografo, ritraendo gli altri, finisce per ritrarre sé stesso e la sua indagine nel mondo.

Richard Avedon, «Autoritratto, Provo, Utah, August 20, 1980». © The Richard Avedon Foundation. Courtesy Gagosian

Mauro Zanchi, 16 giugno 2025 | © Riproduzione riservata

I giorni italiani di Richard Avedon proseguono a Roma | Mauro Zanchi

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