Caravaggio, «Martirio di sant’Orsola» (1610), Collezione Intesa Sanpaolo-Gallerie d’Italia, Napoli

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Caravaggio, «Martirio di sant’Orsola» (1610), Collezione Intesa Sanpaolo-Gallerie d’Italia, Napoli

Il caso Caravaggio non è ancora chiuso

A Palazzo Barberini sono riuniti 23 dipinti del maestro lombardo, comprese due recenti scoperte e un’attribuzione in bilico: «È un pittore realista, ma anche molto classico. È stato il motivo ispiratore di moltissima pittura nei giovani», spiega Maria Cristina Terzaghi

«Caravaggio 2025»: un nome e una data, questi gli essenziali componenti del titolo della mostra che apre i battenti il 7 marzo a Roma, a Palazzo Barberini, per chiudere il 6 luglio. Il nome è del pittore che rivoluzionò la pittura del suo tempo, la data è quella del Giubileo universale, che si sta celebrando a Roma. Caravaggio rivoluzionò infatti anche il modo di intendere la rappresentazione del sacro, ispirandosi a principi pauperistici, che la Chiesa ha fatto definitivamente suoi. La curatela è di Francesca Cappelletti, direttrice della Galleria Borghese, Maria Cristina Terzaghi, docente universitaria, seicentista e studiosa tra i maggiori del Merisi, e Thomas Clement Salomon, direttore delle Gallerie Nazionali Barberini Corsini. Main partner è Intesa Sanpaolo

Per due opere in mostra, il trasferimento a Palazzo Barberini segna un ritorno nella sede che le ospitò quattro secoli fa: la «Santa Caterina di Alessandria» (1598-99), proveniente dal Museo Thyssen-Bornemisza di Madrid, e «I bari», dipinto tre anni prima (e acquistato dai Barberini in occasione della vendita della collezione del cardinale Francesco Maria del Monte), prestato dal Kimbell Art Museum di Fort Worth negli Usa. Dalla National Gallery of Ireland di Dublino giunge la «Cattura di Cristo» (1602), dalla Pinacoteca di Brera la «Cena in Emmaus» (1606). Il «David con la testa di Golia», in cui Caravaggio, poco prima di morire nel 1610, si ritrasse nella testa decapitata del gigante biblico, giunge dalla Galleria Borghese. Al cardinale Scipione Borghese fu lo stesso Caravaggio a inviare il capolavoro, accludendolo alla domanda di grazia per la pena capitale a cui era stato condannato per omicidio. Tra il «San Francesco in estasi» del Wadsworth Atheneum Museum of Art di Hartford e il «Martirio di sant’Orsola», l’ultima dipinta dal pittore lombardo nel 1610 durante il suo secondo soggiorno partenopeo, poche settimane prima di morire, nonché l’opera principale della collezione di Intesa Sanpaolo solitamente esposta alle Gallerie d’Italia della Banca a Napoli, compaiono anche due recenti scoperte: l’«Ecce Homo» (1606-09) di collezione privata e il «Ritratto di Maffeo Barberini» (1600 ca), già oggetto di una mostra specifica nello stesso Palazzo Barberini. Unica opera che presenta un punto interrogativo nell’attribuzione è il «Narciso», sempre di Palazzo Barberini, che per taluni studiosi venne dipinto dal Merisi, per altri dallo Spadarino. Ciò a testimoniare che il caso Caravaggio (genio acclamato del suo tempo, dimenticato poi per tre secoli, e riscoperto a metà del ’900), non è ancora chiuso.

D’altronde, fu lo stesso pittore lombardo, morto 38enne nel 1610, a rendersi indecifrabile già a i suoi contemporanei. La sua vita fu come la sua pittura: a forti contrasti di zone di luce e zone scure (se non oscure). Dramma e teatralità sono componenti della sua arte e del suo destino. Abbiamo intervistato Maria Cristina Terzaghi.

Caravaggio, «Giuditta e Oloferne», 1598-1602, Roma, Gallerie nazionali d’arte antica, Palazzo Barberini

È cambiata la percezione che abbiamo del pittore lombardo in questo ultimoquarto di secolo?
È molto cambiata. Ci stiamo avvicinando a una percezione molto più realistica di Caravaggio, grazie alla ricostruzione del contesto in cui operò, e questo sin dai suoi esordi. Come altri, arrivò a Roma (nel 1595, o poco prima, e non, come si riteneva, nel 1592), attratto dai monumenti, ma anche perché le tante botteghe garantivano lavoro a tutti, soprattutto per le effigi di santi, imperatori e uomini illustri: si pensava che proprio a Roma fosse custodita, molto più che altrove, la loro vera immagine. Si è anche acclarata la questione della rapidità esecutiva di Caravaggio. Tra il suo arrivo a Roma e il 1597, quando entra nella cerchia del Cardinal Del Monte, realizza una grande quantità di opere. Com’è possibile? Le fonti dicono che dipingeva due teste e poi se ne andava a mangiare. Lavorava con celerità.

Lei è stata la prima ad attribuire, nel 2021, con convinzione, l’«Ecce Homo» di Madrid a Caravaggio. Quali sono gli elementi stilistici che determinano certezze attributive riguardo al Merisi? Che cosa lo distingue dagli epigoni, pur geniali?
Diceva Mina Gregori che l’attribuzione di un’opera a un artista è il frutto di un paragone di quell’opera con il museo interiore che lo studioso possiede. È come un circuito che si crea nella testa tra quello che vedi davanti a te e l’immagine di un artista che ti sei fatto nel corso degli studi, è un’intuizione e insieme un metodo molto empirico, non ci sono regole, perché nelle scienze umane due più due non fa sempre quattro. Per quanto riguarda l’«Ecce Homo», avevo solo un dubbio sulla testa di Cristo, ma poi ho capito che non era una testa presa da un modello, ma da ricordi giovanili di un esempio molto noto a Milano, realizzata dal Giampietrino, e rifatta probabilmente numerose volte nella bottega del maestro di Caravaggio, Simone Peterzano.

La mostra propone una selezione di 23 opere. Commentava Longhi: «Per lui l’appuntamento con un dipinto avveniva una volta, e una voltasoltanto». Perché?
Caravaggio dipingeva mettendo in posa i modelli, per creare il suo teatro visivo. E questo non poteva ripetersi facilmente. Inoltre, non disegnava quasi mai, ma dipingeva direttamente, a differenza di Orazio Gentileschi o di sua figlia Artemisia, entrambi pittori caravaggeschi. In Caravaggio c’è un’aderenza alla realtà di grado superiore a qualsiasi altro artista del suo tempo, e questa aderenza avviene tutta assieme, in un solo colpo.

Chi sono gli studiosi che avete chiamato a scrivere nel catalogo Marsilio?
Oltre a me, hanno scritto Keith Christiansen, Giuseppe Porzio, Francesca Cappelletti, Francesca Curti, Claudio Strinati, Rossella Vodret, Gianni Papi e Stefano Causa.

Il luminismo del Caravaggio è figlio della notte: le sue luci sono sempre di lanterne. La sua pittura non nasce anche dalle suggestioni dei vicoli di Roma, vissuta da lui, come si sa, abbondantemente anche di notte?
L’idea del nero proviene, in Caravaggio, da Tintoretto e da Giorgione. Giunto a Roma, in molti videro una radice giorgionesca in Caravaggio. Più che con la notte, il nesso è con Venezia. Luci e tenebre hanno peraltro in Caravaggio una valenza molto simbolica.

Prescelse il vero anziché il «bello» e «le cose come sono» a quelle idealizzate: quali furono le matrici di questo approccio al mondo?
Caravaggio è indubbiamente un pittore realista, ma bisogna stare attenti, perché è un pittore anche molto classico. Nella sua pittura c’è sempre un equilibrio straordinario tra il vero e il bello, non è un bambocciante o un pittore di taverne, come lo furono pure suoi eccelsi seguaci. Il collezionista Vincenzo Giustiniani, in una sua lettera sulla pittura, mette sullo stesso piano il classico Annibale Carracci e Caravaggio, il che significa che Caravaggio non era sentito come eccentrico. Dietro la sua pittura c’è indubbiamente lo studio dei classici, come di Michelangelo. Ciò gli ha garantito una tenuta pittorica straordinaria, senza cadute.

Caravaggio influenzò un’intera stagione della pittura europea. Come avvenne?
Caravaggio è stato il motivo ispiratore di moltissima pittura nei giovani. Già nel 1603 si diceva che la sua era una maniera straordinariamente adatta a essere seguita dai giovani. Ma siccome dipingere come Caravaggio era molto difficile, dovevi essere molto dotato per farlo bene. Come nel caso di vari artisti stranieri che vennero a Roma, attratti dai monumenti e dall’antico, che esportarono nel Nord Europa il linguaggio caravaggesco. Ribera sicuramente l’ha visto anche lavorare, tanto che fece suo il metodo di Caravaggio di dipingere in una stanza con le pareti colorate di nero e con la luce che veniva solo dall’alto. Ma allievi diretti, Caravaggio non ne ebbe. Fu un’ondata.

Caravaggio, «Santa Caterina di Alessandria», 1598-99, Roma, Museo Thyssen-Bornemisza

Guglielmo Gigliotti, 07 marzo 2025 | © Riproduzione riservata

Il caso Caravaggio non è ancora chiuso | Guglielmo Gigliotti

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