Irving Penn (1917-2009), l’autore che seppe ritrarre meglio di chiunque altro i movimenti controculturali dell’America degli anni Sessanta, è il protagonista della quarta mostra che la Fondazione Mop a La Coruña dedica ai grandi della fotografia. Dopo Lindbergh, Meisel e Newton, la fondazione creata da Marta Ortega Pérez, erede dell’impero tessile Inditex, fino al primo maggio accoglie le 160 fotografie e altri pezzi unici, come lo sfondo utilizzato nello studio dell’artista, che compongono «Irving Penn: Centennial», organizzata nel 2017 dal Metropolitan Museum di New York in collaborazione con la Fondazione Irving Penn, in occasione del centenario della nascita dell’artista.
La rassegna presenta tutti gli aspetti della prolifica carriera di Penn, dagli inizi alla fine degli anni Trenta fino ai primi anni di questo secolo: fotografie di moda, nudi squisiti, composizioni floreali, nature morte e i ritratti iconici che l’hanno reso famoso, scattati in diversi angoli del mondo. «La macchina fotografica mi ha sempre stupito. L’ammiro per lo strumento che è, in parte Stradivari, in parte bisturi», diceva Penn, che sapeva dissezionare la realtà con estrema eleganza. Per tutta la vita non smise mai di studiare il viso e la figura, l’atteggiamento e l’aspetto, l’abito e lo stile, l’ornamento e l’artefatto, con la stessa passione e lo stesso interesse per le persone anonime e i personaggi celebri. Nei suoi ritratti seppe catturare l’espressione di commercianti, venditori ambulanti e abitanti di Cuzco, della Nuova Guinea o di qualsiasi luogo in cui lo conducesse il suo instancabile spirito egualitario, conferendo a queste persone la stessa dignità di mostri sacri dell’arte come Picasso, Dalí o Truman Capote e miti del cinema come Marlene Dietrich e Audrey Hepburn. La sua sensibilità di scultore per i volumi e la luce si materializza nei ritratti ma anche nelle nature morte, come quella che fu scelta per la sua prima copertina di «Vogue», pubblicata il primo ottobre 1943. Impossibile dimenticare la bellezza formale delle immagini in cui trasformava materiali di scarto come mozziconi di sigarette o bicchieri di plastica frantumati in motivi artistici.
Il curatore Jeff L. Rosenheim, responsabile del dipartimento di fotografia del Metropolitan, ha spiegato che «nonostante fosse totalmente contrario al tabacco, per un periodo si dedicò a raccogliere mozziconi di sigaretta per strada per fotografarli. Secondo lui, in qualche modo, nel mozzicone rimaneva parte dello spirito di chi lo aveva fumato». Mentre come fotografo di «Vogue» si trovava in una posizione unica per creare un documento esaustivo della storia culturale del XX secolo, nel tempo libero realizzava la serie «Nudes» e, insieme a Robert Freson, si dedicava a sbiancare le fotografie che poi sviluppava di nuovo come stampe alla gelatina d’argento. La sua formazione artistica lo portò a sperimentare anche la stampa al platino e al palladio per convertire in pezzi unici le sue fotografie. Prendeva un’immagine che era stata stampata a colori sulle pagine di «Vogue» e la trasformava in un originale in bianco e nero. Di tutto questo si parla nel libro che accompagna la mostra, un volume che offre una delle più ampie selezioni di fotografie di Penn, 300 in totale, tra cui le immagini più iconiche e diversi lavori inediti, oltre a una serie di saggi di esperti.