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«Untitled» (2020) dalla serie «Australidelphia» di Martha Jungwirth

Foto: Charles Duprat; © The Artist/Vegap, Madrid 2024

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«Untitled» (2020) dalla serie «Australidelphia» di Martha Jungwirth

Foto: Charles Duprat; © The Artist/Vegap, Madrid 2024

Jungwirth: «Non sono astratta, amo Goya e mi ispiro a Conrad»

A 84anni l’artista austriaca a lungo trascurata dalla critica espone al Guggenheim di Bilbao e a Palazzo Cini a Venezia

Appuntata alla parete dello studio di Martha Jungwirth a Vienna, tra immagini di dinosauri e ritagli di giornale, c’è una fotografia di due calciatori che si contendono il pallone. Chi siano i giocatori è irrilevante, il punto è la drammaticità e il dinamismo del loro movimento. Nel lavoro dell’ottantaquattrenne artista austriaca l’azione del mondo esterno si scontra spesso con la sua vita interiore per dar vita a vasti campi di colore su carta, contrassegnati da quelle che lei chiama «flecken» (macchie).

Le opere di Jungwirth sono state trascurate per decenni, ma oggi è rappresentata da Thaddaeus Ropac e due sue importanti mostre sono in corso nel Guggenheim Museum di Bilbao (fino al 22 settembre) e nella Galleria Palazzo Cini di Venezia («Martha Jungwirth: Herz der Finsternis» fino al 29 settembre).

L’autrice delle opere esposte ci ha parlato dei soggetti che scatenano il suo feroce processo pittorico e della sua lenta affermazione professionale.  

Com’è organizzata la sua personale a Bilbao?
È una retrospettiva, ma ci sono anche opere degli ultimi due anni. La narrazione segue i temi cui mi sono dedicata fin dall’inizio: oggetti e ritratti, paesaggi, animali e storia dell’arte. Nella prima sezione ci sono tre grandi disegni della serie «Indesit», esposti anche a documenta 6 nel 1977. Il punto di partenza di questa serie è stato il mio primo viaggio a New York, una città che mi ha completamente conquistata. Al MoMA c’era una mostra di disegni architettonici di Mies van der Rohe che mi colpì molto. Sono sempre guidata da emozioni forti e da esperienze visive che scatenano qualcosa in me. Tornata a casa, mi sono seduta nella mia cucina e ho realizzato questi grandi disegni di una lavastoviglie. Quando si apre un elettrodomestico di questo tipo si notano le stesse strutture che possono essere associate all’architettura; basta avere l’immaginazione necessaria. Poi la mostra prosegue con i ritratti. In realtà ho ritratto solo mio marito. Non mi ha distratto mentre dipingevo, non ha detto nulla, mi ha dato fiducia. Quando posano per me degli estranei, la loro presenza mi inquieta sempre. Poi vengono i paesaggi: la Grecia compare spesso, perché ci sono stata tante volte, così come Roma, dove ho soggiornato con mio marito, New York eccetera. Gli animali hanno iniziato a interessarmi di più nel mio lavoro dopo che sono stati orribilmente spazzati via da tutti questi incendi boschivi. Non abbiamo molta considerazione per le persone e ancor meno per gli animali. Questo mi colpisce, mi fa davvero male. Ho dipinto animali basandomi sulla mia immaginazione. In Australia sono bruciati tre miliardi di animali nel 2019-20, una cosa inimmaginabile, terribile. La sezione sulla storia dell’arte si concentra sugli ultimi due anni, in cui ho esplorato l’opera di Goya e Manet. Anni fa, ero a Madrid con mio marito e siamo andati al Prado e nella chiesa (la Ermita de San Antonio de la Florida, in cui è collocata anche la tomba dell’artista, Ndr) dove ha dipinto un ciclo di affreschi. Goya è così contemporaneo nel nostro tempo: tutte le incisioni, a partire da «I disastri della guerra» (1810-20), sono molto attuali. Nulla è cambiato, è come è sempre stato. Poi c’è stata una grande mostra su Goya alla Fondation Beyeler di Basilea nel 2021. Avrei voluto visitarla, ma era il periodo della pandemia e ho avuto paura. Ora mi pento di non esserci andata, ma ho ordinato il catalogo e mi sono chiusa in casa a studiare Goya. Sulla copertina del catalogo c’è il dipinto della Maja, nuda e vestita («Maja desnuda» del 1795-1800 e «Maja vestida» del 1800-07, Ndr), e da lì ho iniziato. Quando qualcosa cattura il mio interesse, a volte si sviluppa molto rapidamente.

Martha Jungwirth. © Shawn Dell; cortesia di Thaddaeus Ropac

La mostra a Venezia è ispirata a Cuore di tenebra di Joseph Conrad. Che cosa ha attivato questo interesse?
Compro tutti i giorni la «Frankfurter Allgemeine Zeitung» (Faz) e c’era un grande articolo sul giornalista francese Albert Londres, che nel 1909 o 1910 indagò su ciò che stava realmente accadendo nelle colonie; non su ciò che i ministri francesi dicevano alla gente, ma su tutta quella follia. Fu attaccato e gli furono intentate diverse cause. Londres scrisse di tutti i luoghi in cui il colonialismo dilagava all’epoca. Non visse a lungo e morì in un naufragio. Nel 2020 il suo libro Africa in Chains è stato tradotto in tedesco, motivo per cui è stato pubblicato l’articolo sulla Faz. Nell’articolo si menziona il fatto che la grande Esposizione coloniale di Parigi del 1931 si svolse al Palais de la Porte Dorée di Parigi, che era stato costruito appositamente per la mostra. L’argomento cominciò a interessarmi sempre di più. Dopo avere letto il libro ho trascorso tre giorni a Parigi per visitare questo museo. Tratta di migrazione e immigrazione, dalle prime migrazioni al XVII secolo, quando i primi africani furono rapiti (per ridurli in schiavitù, Ndr), e poi al periodo coloniale, durante il quale fu sfruttato tutto il possibile. Ho visitato anche il Musée du quai Branly-Jacques Chirac. Mostra tutto ciò che è stato saccheggiato. Ho trovato il museo stesso orribile, con gli edifici di fango finto e il pavimento rosso. Davvero sgradevole. Queste visite hanno intensificato il tutto. Poi sono tornata a casa e ho dipinto i quadri tutti insieme. Il ricordo e le emozioni erano molto intensi e complessi, ed è per questo che ho dipinto la serie. Li ho dipinti in 14 giorni; quando l’emozione è forte e sento che sta andando bene, succede rapidamente.

Com’è stato essere un’artista donna dopo aver terminato gli studi a Vienna negli anni Sessanta?
All’epoca, come donna, si avevano poche opportunità, ma non mi sono preoccupata. Inoltre, a Vienna non c’era molto altro. C’era solo una galleria, la Galerie nächst St. Stephan, che rappresentava artisti come Arnulf Rainer, Josef Mikl, Wolfgang Hollegha, Herbert Boeckl e Markus Prachensky. Ho ricevuto molti premi, anche se non hanno avuto alcun impatto economico. Ne fui felice, ma continuai a lavorare. La vera svolta avvenne incredibilmente tardi, grazie al pittore tedesco Albert Oehlen. Fu invitato dai curatori della Collezione Essl di arte austriaca a curare una mostra secondo il suo gusto a partire dalle opere acquistate. In quella mostra mise sotto i riflettori le mie opere. Da quel momento, la gente ha cominciato a riconoscermi. Dopo ho avuto una mostra a Krems, una grande retrospettiva alla Kunsthalle nel 2014, una bellissima mostra, e poi le cose sono finalmente decollate.

Si definirebbe un’artista astratta?
Non sono un’artista astratta. Parto sempre da un motivo, ma la realtà è solo un pretesto. Attraverso il mio modo di dipingere, trasformo la realtà, ma il punto di partenza è sempre quello che vedo davanti a me. Non è astratto. Si possono vedere figure, se si vuole. Per me sono importanti le emozioni e ciò che accade mentre dipingo. Il processo pittorico lo porta avanti. Ho qualcosa in mente e poi emerge un’immagine o una struttura di macchie, ma parte da un’idea concreta. Non voglio riprodurre, voglio mostrare quello che mi succede, per così dire, quando ho visto qualcosa o ho provato queste emozioni.

Julia Michalska, 27 agosto 2024 | © Riproduzione riservata

Jungwirth: «Non sono astratta, amo Goya e mi ispiro a Conrad» | Julia Michalska

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