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Olga Gambari
Leggi i suoi articoliIl 5 ottobre la Galleria Tucci Russo celebra 50 anni di attività. Nello spazio a Torre Pellice si inaugurano una personale di Tony Cragg «GE(SCHICHTE)» e la collettiva «Vue d’ensemble: immaginari in dialogo (parte III)» (entrambe fino al 31 marzo 2026). Intanto, nella sede torinese della galleria, è aperta fino al 31 gennaio 2026 una personale di Mariò Airò, «Co-Mondo». Due mostre simboliche per raccontare una storia di arte, di passione, di una galleria come luogo di incontro attraverso cui si può leggere anche mezzo secolo di storia dell’arte italiana e internazionale, che ha esplorato soprattutto il concetto di scultura. Una storia esemplare e coerente, condivisa anche con gli artisti dell’Arte Povera e poi con nomi come Thomas Schütte, Daniel Buren e Jan Vercruysse, fino a generazioni più giovani con Gianni Caravaggio, Christiane Löhr e Robin Rhode.
Ne parliamo con Lisa Di Grazia, per tutti Lisa Tucci Russo, compagna di vita e lavoro sin dai primi anni Settanta di Antonio Tucci Russo, scomparso nel 2023. Tucci Russo è stata una figura iconica, partita nella Torino degli anni Sessanta con poeti e gli artisti dell’Arte Povera per amici, direttore della galleria di Gian Enzo Sperone e poi, dal 1975, gallerista in uno spazio in via Fratelli Calandra che debuttò con una mostra di Pier Paolo Calzolari. La galleria si spostò dopo pochi mesi al Mulino Feyles. Lisa Tucci Russo ricorda quel luogo «dove c’erano grandi spazi e anche gli studi di Mario e Marisa Merz, e la sede di Assemblea Teatro». Poi, nel 1990, il trasferimento in via Gattinara e infine, nel 1994, nei grandi spazi dell’ex manifattura tessile Mazzonis a Torre Pellice. Risale al 2017, invece, l’apertura di una seconda sede in un palazzo storico nel centro di Torino, in via Bertolotti.
Questi cinquant’anni sono un osservatorio sulla storia dell’arte e del sistema internazionale. Il mondo, intanto, è completamente cambiato.
È un altro mondo. Allora la nascita della galleria fu spontanea ed è questo che fa la differenza rispetto ad oggi. All’epoca, te ne accorgevi dopo che eri diventato un gallerista, perché lo spirito era quello di voler dare forma a idee e progetti, far sì che la teoria avesse anche un’immagine estetica e fisica. Fu una maturazione comune insieme agli artisti, con i quali si parlava molto e si trascorreva molto tempo insieme. Negli anni Sessanta si creò un forte legame nato da interessi culturali e dalla frequentazione di luoghi come l’Unione Franco Antonicelli curata da Edoardo Fadini, dove si incontravano anche Carmelo Bene e Allen Ginsberg. E poi c’erano le mostre da Sperone.
La galleria era un laboratorio. C’era anche un aspetto commerciale?
Il mercato non c’era! Quello che oggi, invece, interessa molto a tutti. Ciò che, all’epoca, ha consentito che i progetti si realizzassero è che esistevano collezionisti che si entusiasmavano e li sostenevano. Oggi si dà valore a certe opere solo in base a quanto l’economia è interessata a sostenerle. I media hanno molta responsabilità in questo: non si parla tanto del significato dell’opera ma di quanto ha ottenuto in asta, creando così un’eco che ha già una deviazione in partenza. Il pubblico è informatissimo sugli aspetti economici ma in proporzione, invece, lo è in modo superficiale su tutto il resto e si sofferma poco davanti all’opera.

Una veduta della mostra «In no time», 2021, di Tony Cragg, Torre Pellice, Galleria Tucci Russo Studio per l’Arte Contemporanea. Courtesy: l’artista e galleria Tucci Russo, Torre Pellice e Torino. Photo: archivio fotografico galleria Tucci Russo
I grandi spazi in cui la galleria ha preso casa hanno permesso la realizzazione di progetti dal respiro museale...
È stato un fenomeno molto legato all’Italia perché fino al 1984, quando ha aperto il Castello di Rivoli, non c’erano musei dedicati all’arte contemporanea, e questi artisti avevano bisogno di spazi ampi che dessero loro anche una libertà di progettazione e di visione. Ed erano i privati, i galleristi, che potevano offrirli loro.
Com’è cambiata la considerazione delle fiere, Art Basel per esempio?
Negli anni Settanta, a chi si muoveva nel contemporaneo non interessava partecipare a una fiera. Inoltre si era ancora in una situazione politica da ’68 e quindi c’era anche la volontà di essere scomodi rispetto a un sistema borghese. Alle fiere andavano le gallerie storiche, classiche. È stato durante gli anni Ottanta che si è verificata l’apertura al mercato, anche per il ritorno alla pittura.
Complice l’edonismo capitalista...
C’è stata una rivalutazione della fiera come sistema. Oggi le fiere hanno un potere eccessivo, sia come struttura sia come eco rispetto al pubblico, che è cambiato. A volte mi ritrovo ad Art Basel con collezionisti giovani che non conoscono l’Arte Povera e per i quali se una galleria, anche con una storia importante, non partecipa a queste fiere è come se non esistesse.
Le mostre che celebrano in questi giorni il cinquantenario della Galleria Tucci Russo hanno un valore simbolico?
In realtà le mostre degli ultimi due anni sono tutte state pensate per questo anniversario, come una sorta di avvicinamento attraverso cui rileggere la storia della galleria e dei suoi artisti. «Vue d’ensemble: immaginari in dialogo» a Torre è, infatti, la terza parte di un racconto corale. Troppi i nomi e quindi non potevo immaginare una mostra unica. Contemporaneamente c’è una personale di Tony Cragg dal titolo simbolico, «GE(SCHICHTE)», parola tedesca che contiene il concetto di «stratificazione», che trovo particolarmente efficace per l’occasione! La sede di Torino, invece, che è stata aperta per offrire agli artisti una dimensione più intima e privata, ospita Mario Airò proprio con questo spirito.
Che cosa accomuna la progettualità di questi decenni e gli artisti con cui l’avete condivisa?
Sono artisti che hanno una reale necessità creativa e ogni progetto è nato con l’idea che una mostra debba lasciare un segno nella mente e nel cuore: non te la devi dimenticare.
Progetti futuri?
La linea condivisa con Tucci continua, ma con alcune variazioni sul tema.

Lisa e Antonio Tucci Russo, 2002. Foto: Nanda Lanfranco