Verifica le date inserite: la data di inizio deve precedere quella di fine
Zoé Isle de Beauchaine
Leggi i suoi articoliARTICOLI CORRELATI
Quando, nel 2005, il Rijksmuseum di Amsterdam decise di estendere le sue collezioni al XX secolo, ai curatori della sezione fotografica, Hans Rooseboom e Mattie Boom, gli Stati Uniti sembrarono una scelta ovvia: «Se nella fotografia il XIX secolo era francese, il XX secolo era innegabilmente americano». È infatti oltreoceano che è nata la fotografia moderna, incarnata in particolare dalle immagini di Paul Strand, uno dei caposcuola della Straight Photography, che mirava a trasformare il mezzo fotografico in un’arte a sé stante. Negli ultimi 17 anni i due curatori hanno aggiunto alle collezioni del museo di Amsterdam 7.500 stampe e 1.500 libri.
La mostra «American Photography», in corso fino al 9 giugno, riunisce alcune di queste opere, ma è integrata da prestiti provenienti da collezioni internazionali. Il duo curatoriale ha viaggiato in lungo e in largo per gli Stati Uniti, in autobus o in treno per avere una visione diretta del Paese, con l’obiettivo di uscire dai sentieri battuti. Sono così riusciti a fare scoperte sorprendenti, come una serie di nudi di Charles Sheeler, più noto per le sue vedute industriali, e le elaborazioni fotografiche di tessuti eseguite da Sarah Sense, che esplorano la complessa storia delle popolazioni native. Più che stilare un catalogo delle icone della fotografia americana, l’ambizione era quella di studiare il suo rapporto con la società. «La storia della fotografia e quella del Paese sono strettamente legate, osserva Mattie Boom. La fotografia è per gli Stati Uniti quello che la pittura era per i Paesi Bassi nel Seicento. I loro fotografi sono i nostri Rembrandt e Vermeer». La mostra esplora il duplice ruolo svolto da questo mezzo, sia come strumento espressivo, sia come agente di cambiamento nella società americana, e mette in evidenza come sia penetrato nella cultura visiva per diventare un linguaggio universale.
L’attenzione si concentra sui suoi diversi usi, dalla fotografia commerciale alla sfera intima. Quest’ultima è uno dei punti salienti della mostra, che pone al centro la fotografia vernacolare, cioè quelle immagini scattate da non professionisti e legate all’ambito della quotidianità. La mostra rivela le molteplici sfaccettature di questo genere, dagli album privati agli oggetti più sorprendenti, rivelando la dimensione quasi archeologica della ricerca intrapresa. Scopriamo un puntaspilli con la fotografia di una donna elegante, una guida stradale del 1905 con vedute e frecce (Gps ante litteram), una bambola con il volto fotografico e una «Lucky Box» accuratamente realizzata con pacchetti di sigarette Marlboro, contenente i ritratti di diverse studentesse mescolati a note scritte a mano che celebrano la loro amicizia. Riscoperta come regalo di fine anno in un mercatino delle pulci, quest’opera apre la mostra. Posta da sola al centro della sala, spiega l’intenzione dei curatori di abbattere l’antica, e altamente istituzionale, distinzione tra arte alta e arte bassa.
L’altro asse principale si svela nella sala adiacente, dove si confrontano due visioni. Da un lato, il sogno americano, incarnato da una parete di fotografie che mostrano un’America bianca, moderna ed elegante, con famiglie sorridenti che nei fine settimana curano i prati delle loro seconde case. Dall’altra, gli Stati Uniti ritratti da Robert Frank per il suo libro The Americans (1958), oggi considerato un classico; al momento della sua pubblicazione questa visione della Nazione in tutta la sua banalità fu fortemente criticata dalla stampa americana, che definì il libro «un’immagine svergognata del Paese». Queste contraddizioni della società americana, questa tensione tra l’immagine patinata, a cui la fotografia ha largamente contribuito, e la realtà, che altri hanno preferito mostrare, scandiscono la visita. Segnato a terra dalle linee gialle della segnaletica stradale d’Oltreoceano, il percorso assume la forma di un viaggio in auto attraverso i grandi temi annunciati dai classici cartelli stradali verdi.
Una sala dedicata ai ritratti ci accompagna in un viaggio attraverso i volti dell’America. Queste posture, a volte congelate, a volte fiere, hanno molto da dire sulla storia del Paese e sulle sue tendenze schizofreniche, come il doppio autoritratto di Robert Mapplethorpe (1980). Un altro esempio è un pacchetto di carte che celebra le tradizioni Hopi e Zuni, venduto ai turisti nei negozi di souvenir in un periodo in cui questi popoli subivano sistematiche violenze. Più avanti, il paradosso continua con il genere del paesaggio. Abbiamo tutti familiarità con l’immensità immacolata dei siti, ampiamente trasmessa nella cultura visiva. Le fotografie di Bryan Schutmaat e Hulleah Tsinhnahjinnie evidenziano i disastri della colonizzazione umana. L’evidenziazione degli usi amatoriali e commerciali della fotografia offre una visione più ampia della tecnica. Le lastre di motivi tessili create da Edward Steichen e un manifesto di guerra basato su una fotografia di Edward Weston, entrambi oggi parte di importanti collezioni museali, evidenziano l’osmosi dei generi.
Queste opere costituiscono anche un ponte con l’ultima sala, che segna l’ingresso, nel XX secolo, della fotografia nel campo dell’arte, attraverso figure come Paul Strand e Edward Weston, e poi, a partire dagli anni Quaranta, grazie all’arrivo di molti artisti europei in fuga dalla guerra. Tuttavia, è a partire dagli anni Settanta che la fotografia ottiene un ampio riconoscimento nel mondo dell’arte. Questa riduzione della storia del versante artistico a un’unica sala rappresenta una conclusione un po’ affrettata di un percorso meticolosamente studiato. O forse lascia intendere la possibilità di una grande mostra sul tema in futuro? «American Photography» è comunque un tuffo nelle storie intrecciate della fotografia e della società americana, con un’ampia varietà di proposte a volte sorprendenti.