Cinque anni dopo la pubblicazione ufficiale, nel 1909 su «Le Figaro», del manifesto di Filippo Tommaso Marinetti (in realtà, la prima a pubblicarlo fu «La Gazzetta dell’Emilia» di Bologna, in prima pagina il 5 febbraio), il Futurismo allargò i propri confini anche all’architettura con il «Manifesto dell’Architettura Futurista» del 1914, nato dopo che due anni prima erano entrati nel movimento architetti come Mario Chiattone (Bergamo, 1891-Lugano, 1957) e Antonio Sant’Elia (Como, 1888-Monfalcone, 1916). Questo testo lo dice piuttosto chiaramente: per i futuristi l’architettura non passatista deve avere al centro lo sviluppo delle città, il luogo di aggregazione umana per antonomasia, il simbolo dello sviluppo e della modernità in contrasto con le città tradizionali. Soprattutto tali artisti e architetti pongono la loro attenzione sui trasporti e sulle costruzioni, gli edifici che, realizzati in materiali «moderni» come vetro e cemento, devono avere conformazioni curve per simulare il mantra del Futurismo, il movimento. Se Tullio Crali (Igalo, 1910-Milano, 2000), Sant’Elia, Chiattone e Fortunato Depero (Fondo, Val di Non, 1892-Rovereto, Tn, 1960) seguono i dettami del movimento marinettiamo, bisognerà attendere pochi anni per giungere al quasi contemporaneo Razionalismo che, pur propugnando l’uso di materiali come acciaio e cemento armato negli anni Venti e Trenta del ’900, in Italia punterà tutto sul funzionalismo, sulla forma dell’edificio che scaturisce dalla sua funzione, propendendo soprattutto per volumi semplici e privi o quasi di elementi decorativi.
Su questi importanti «particolari» storici si sofferma la mostra «Metropoli. Visionary Architecture from Futurism to Rationalism», che fino al 7 febbraio 2025 presenta nella Casa Italiana Zerilli-Marimò della New York University opere in prestito dalla Fondazione Massimo e Sonia Cirulli di San Lazzaro di Savena (Bo). I lavori esposti, scelti dal curatore Ara H. Merjian, permettono di analizzare le idee di questi movimenti che in Italia stavano dando forma a un linguaggio nuovo, visionario e poetico, anche attraverso il lavoro di giovani architetti razionalisti che ben presto videro le loro idee cozzare con le priorità estetiche del regime fascista, che da un lato mise a disposizione spazi ampi per l’arte di propaganda, pure di elevata qualità (basti pensare a Mario Sironi), dall’altro lato soffocò non poche voci appunto moderne. Il percorso espositivo permette di comprendere come ancora oggi la lettura degli spazi urbani sia debitrice di quelle idee di cent’anni addietro: lo si vede, ad esempio, nei dipinti, da «New York» (1910) di Athos Casarini (1883-1917) a «Trasvolata Atlantica. Volo su New York» (1933) di Osvaldo Peruzzi (1907-2004) fino a un paesaggio su cartone di Osvaldo Licini (1894-1958), ma anche nei disegni architettonici di Ludovico Quaroni (1911-87), Gaetano Minnucci (1896-1980), Marcello Piacentini (1881-1960), fino al poliedrico Bruno Munari (1907-98) presente con un fotocollage di inizio degli anni Trenta.