In che modo un fotografo può catturare l’anima di un intero Paese? Questa è la domanda a cui risponde la mostra «Henri Cartier-Bresson e l’Italia», che esplora il lavoro del celebre fotografo francese, definito «l’occhio del secolo». Con 160 scatti in bianco e nero, per lo più vintage, e materiali d’archivio, la mostra, a cura di Clément Chéroux e Walter Guadagnini, dopo la tappa a Palazzo Roverella di Rovigo, viene ospitata dal 14 febbraio a Camera-Centro Italiano per la Fotografia a Torino.
«Cartier-Bresson (1908-2004) ha immortalato l’Italia in più di quattro decenni, cogliendone l’essenza attraverso dettagli apparentemente semplici ma potentemente evocativi», sottolinea Guadagnini. Il viaggio inizia negli anni ’30, periodo in cui il suo sguardo è influenzato dal Surrealismo. Le prime immagini, come lo scatto di Piazza della Signoria a Firenze del 1932, mostrano sedie e tavoli vuoti che sembrano fluttuare in un silenzio metafisico. Cofondatore dell’agenzia Magnum Photos nel 1947, Cartier-Bresson torna in un’Italia appena uscita dalla guerra, che diventa lo scenario ideale per i suoi ritratti ai grandi personaggi e per la rappresentazione di una società in trasformazione.
Oriana Fallaci lo definì «il re dei fotografi» (sul settimanale «Epoca»), un osservatore instancabile, capace di cogliere quel momento fugace in cui una scena quotidiana si trasforma in un simbolo universale. È il caso dello scatto che ritrae Pier Paolo Pasolini (1959), mentre osserva, sorridendo, alcuni bambini giocare nelle periferie di Roma. Importanti anche gli scatti realizzati in un Sud modellato sulle pagine di Cristo si è fermato a Eboli di Carlo Levi. Negli anni ’70, lo sguardo del fotografo si sposta verso i segni della modernità, come nella veduta da Posillipo a Napoli.
Cartier-Bresson si distingueva per la sua capacità di osservazione e la paziente attesa dell’attimo perfetto, in cui tutti gli elementi di una scena si allineavano armoniosamente. La sua Leica, strumento essenziale, gli permetteva di muoversi agilmente e di mantenere una connessione diretta con il soggetto. Nell’era dei social media e della fotografia digitale, il lavoro di maestri come Cartier-Bresson rappresenta una lezione per i giovani: la necessità di rallentare, osservare e comprendere profondamente ciò che si fotografa. «Le immagini devono avere un senso, sono come le parole che tra loro compongono frasi che devono dirci qualcosa», ricorda Chéroux. La mostra, che prosegue fino al 2 giugno, è accompagnata da un catalogo edito da Dario Cimorelli Editore.