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Matteo Bergamini
Leggi i suoi articoliChe da tempo il Portogallo sia un destino turistico le cui spiagge, città e tradizioni storiche e gastronomiche, siano tra le più apprezzate d’Europa, non ci sono molti dubbi. Ma che dire, invece, dell’arte contemporanea portoghese? Quanto si conosce, fuori dai confini nazionali del Paese di Camões, delle sue attuali tendenze «visive»?
La riposta prova a offrirla «Lucid Reverie» (fino al 12 ottobre), ovvero venti artisti invitati dai curatori Raphael Fonseca (curatore di Arte Moderna e Contemporanea Latinoamericana al Denver Art Museum, Usa) e Hiuwai Chu (Head of Exhibitions al Macba, Barcellona), a loro volta invitati dal direttore della Galeria Municipal do Porto, João Laia, per tracciare quello che si propone di essere un «panorama» dell’arte portoghese attuale.
Ma è al «Panorama da Arte Brasileira», la Biennale del Museu de Arte Moderna di San Paolo (nel 2024 giunta alla sua 38ma edizione, Ndr), che «Lucid Reverie» si ispira.
Laia, però, ha le idee chiare: «Il Portogallo ha già tre biennali di arte contemporanea: la più antica, quella di Cerveira, seguita da Anozero a Coimbra e, da quest’anno, Walk&Talk, alle Azzorre, che presenterà la sua prima edizione come biennale, dopo una decade come festival, oltre alla Biennale BoCA, dedicata a progetti transdisciplinari. L’obiettivo principale di “Panorama” è promuovere l’internazionalizzazione della scena artistica nazionale attraverso una mappatura selettiva. In un certo senso, è un ulteriore elemento che si aggiunge all’ecologia delle biennali, festival e istituzioni d’arte contemporanea portoghesi».
Per la prima edizione, in scena, le opere di Ana Vidigal, André Sousa, Andreia Santana, Belén Uriel, Dayana Lucas, Francisco Trêpa, Gonçalo Sena, Ilídio Candja, Joana Escoval, João Gabriel, João Pedro Vale & Nuno Alexandre Ferreira, Mané Pacheco, Mariana Caló & Francisco Queimadela, Sara Bichão, Sara Chang Yan, Silvestre Pestana, Sofia Borges, Teresa Murta, Tiago Madaleno e Tiago Mestre.
La selezione ha richiesto più di un anno di lavoro, conversazioni, incontri e visite negli atelier, con un obiettivo: «Ciò che volevamo, sin dall’inizio, non era basarci su un’idea predefinita, piuttosto creare una mostra che riunisse personalità anche contraddittorie tra loro. Gli artisti riuniti contribuiscono con le loro diverse prospettive a determinare il fatto che non esistano formule esatte tra le varie pratiche artistiche e ciò che convenzionalmente chiamiamo “Portogallo”», ci racconta Fonseca.

André Sousa, «Conversa inventada», 2020

Joana Escoval, «I forgot to go to school yesterday», 2016
Difficile, in effetti, inquadrare tendenze, stili, poetiche e visioni solo attraverso il nome di una nazione; non vale probabilmente per nessun territorio politico, anche se il Portogallo vive la condizione di stato più antico d’Europa: «Regno» per quasi 800 anni, dal 1143 fino al 1910, quando è stata proclamata la Repubblica, l’identità portoghese tanto marcata sulla carta sembra svanire attraverso una sua attuale ricognizione creativa: «Mi azzarderei a dire che l’arte contemporanea è meno legata all’identità nazionale perché gli artisti, come chiunque attualmente, vivono avvolti da una pluralità di informazioni provenienti da geografie e culture diverse, spiega Hiuwai Chu. E l’arte, oggi, spesso affronta le preoccupazioni del nostro tempo, dando origine a determinate tendenze o ethos culturali, come il ritorno agli archivi o l’ecologia».
«In nessun modo mi sembra possibile circoscrivere un unico gruppo tematico, una predominanza di un mezzo o una postura predominante nel Paese. Anche all’interno di una stessa generazione di artisti che hanno frequentato le stesse università, le pratiche si orientano verso direzioni diverse», continua Fonseca, ricordando anche quanto sia profondo lo iato tra Lisbona e Porto, dove l’interazione tra curatori, artisti e agenti culturali delle due città potrebbe essere ben più profonda, anche data la vicinanza.
Ecco dunque il refrain che spesso si orecchia tra la comunità artistica portoghese, ovvero quello di vivere in un Paese «molto piccolo» non solo geograficamente, schiacciato tra l’infinito oceano e le montagne, ma anche dalle poche risorse: «Molti degli artisti che abbiamo incontrato in questo anno e mezzo hanno sottolineato come la politica potrebbe fare di più per supportare l’arte, come accade nei Paesi nordici, non solo mostrando la propria produzione all’interno dello stesso Portogallo, ma anche sostenendo opportunità di scambio culturale, che potrebbero prendere la forma di mostre e residenze all'estero o della possibilità di partecipare a importanti incontri e eventi d'arte, così come portare curatori, critici e altri artisti da queste parti», sottolinea Hiuwai Chu.
Che ricorda come anche la Spagna, dove la curatrice lavora dal 2007, condivida con il Portogallo un desiderio di «internazionalizzarsi». La colpa di questa possibilità mancata? Secondo Chu potrebbe essere relazionata al mercato e, in effetti, non si farebbe male a pensarlo visto che le gallerie-ammiraglie del mondo intero mai hanno scelto la penisola iberica, in generale, per aprire le proprie seconde o terze sedi né, tantomeno, per montare piani di business ex novo.
«Mi sembra che ci sia la costante sensazione che sia importante uscire dal Paese per ottenere un riconoscimento interno, qualcosa che vedo non solo in Portogallo, ma anche in Brasile», ricorda Fonseca. Una condizione alla quale potremmo agganciare anche l'arte italiana, decisamente confinata tra i propri mari. Ma questa è, forse, un’altra storia.

Mané Pacheco, «Bender», 2025

Tiago Mestre, «Fumar», 2024