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Marisa González, «Violencia Mujer: La descarga», 1975-77, Madrid, Museo Nacional Centro de Arte Reina Sofía (particolare)

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Marisa González, «Violencia Mujer: La descarga», 1975-77, Madrid, Museo Nacional Centro de Arte Reina Sofía (particolare)

Marisa González, l’artista che aveva tutto contro

A distanza di quarant’anni, l’autrice spagnola torna al Museo Reina Sofía con un percorso cronologico e tematico che comincia negli anni Settanta, quando iniziò ad esplorare le intersezioni tra arte e tecnologie della comunicazione e della riproduzione delle immagini

Il Museo Reina Sofía di Madrid dedica un’ampia retrospettiva all’opera di Marisa González (Bilbao, 1943), vincitrice del Premio Velázquez 2023 che riconosce l’eccellenza nell’arte iberoamericana. Artista femminista, che già dalla metà degli anni Settanta esplora le intersezioni tra arte e tecnologie della comunicazione e della riproduzione delle immagini, González è poco conosciuta in Italia, ma ben nota in Germania, nel Nord Europa e in America Latina. Con «Marisa González. Un modo de hacer generativo», aperta dal 21 maggio al 22 settembre, l’artista torna al Reina Sofía quarant’anni dopo avere partecipato a «Procesos: culturas y nuevas tecnologías», la mostra inaugurale del museo madrileno destinato a diventare la nave ammiraglia dell’arte contemporanea spagnola. La rassegna, curata da Violeta Janeiro, ripercorre le tappe salienti della prolifica carriera di González attraverso mezzo secolo di opere in un percorso cronologico e tematico che inizia negli anni Settanta, quando ottiene una borsa di studio presso il Dipartimento di Sistemi Generativi dell’Art Institute di Chicago. 

Con molto anticipo sull’esplosione dell’arte vincolata alle tecnologie, González utilizza in forma creativa e non convenzionale le nuove tecnologie della comunicazione e riproduzione delle immagini. In questo periodo inizia anche a lavorare sulle tematiche del nascente movimento femminista: sagome di donne spettrali e immagini legate alla violenza di genere sono le protagoniste della serie «Violencia Mujer», che insieme alle opere sulla maternità in cui dimostra come i discorsi religiosi, medici e legali controllano e condizionano il corpo delle donne, la colloca tra le artiste rivalutate dalle recenti ricerche genealogiche sull’arte femminista in Spagna. «Esistono due motivi fondamentali per cui il lavoro di González non ha ottenuto per anni il riconoscimento che merita: da un lato, la necessità di ampliare gli orizzonti nella storiografia dell’arte contemporanea, dando visibilità ad artiste che, come lei, hanno messo in discussione la realtà politica e sociale del loro tempo, convinte che il futuro potesse e dovesse essere diverso. Dall’altro, la mancanza di testi critici su un’intera generazione di donne, che mette in luce l’urgenza di approfondire un passato recente, ancora pieno di lacune», spiega Janeiro, sottolineando che essere donna e artista durante la dittatura franchista e la Transizione democratica significava «avere tutto contro». 

Per questo González comprende presto la necessità di creare nuovi paradigmi professionali e nel 1970 con altri autori fonda la prima associazione di artisti di Madrid e in alternativa all’Esposizione Nazionale delle Belle Arti, fonda la prima Esposizione Libera e Permanente, uno spazio che simboleggiava la resistenza e l’autonomia artistica contro il controllo del regime, che fu appoggiato da tutti i grandi artisti spagnoli dell’epoca, tra cui Tàpies, Saura, Picasso, Miró, Chillida e Oteiza. In mostra anche opere molto significative e raramente esposte come le «Grafías musicales» in cui, con la collaborazione di compositori d’avanguardia come Javier Darias e Llorenç Barber, affronta la composizione visiva con una logica simile alla creazione musicale. «Lavoravo sulle partiture a partire dalle fotocopie, una tecnologia che in quel periodo mi affascinava dal punto di vista pratico e concettuale», dichiara Marisa González, che espone anche i ritratti di personalità della scena artistica realizzati con Lumena, un software grafico creato da un’altra grande pioniera, l’americana Sonia Sheridan. «Lumena digitalizzava le immagini che poi materializzavo in forma analogica fotografandone lo schermo», spiega González, che insieme alla fotocopiatrice, al fax e ai nascenti computer utilizza la fotografia, il video e l’installazione per documentare la riconversione della Spagna per entrare nella Comunità Europea, a cui seguono i lavori sulle centrali nucleari e il loro smantellamento e sulle nuove problematiche derivate dall’immigrazione. «Una delle peculiarità del suo lavoro consiste nel recuperare e riciclare materiali del passato, reinventando il suo archivio e riadattandolo alle tecnologie contemporanee. A 82 anni Marisa González continua a proiettarsi verso un futuro incerto, in cui la capacità creativa delle macchine, così come lei le ha avvicinate e comprese, contrasta con le tecnologie che riproducono strutture di controllo e che barattano le libertà conquistate nel corso della storia con una sola: il libero mercato», conclude la curatrice. 

Marisa González, «Lumena», 1992 (particolare)

Roberta Bosco, 17 maggio 2025 | © Riproduzione riservata

Marisa González, l’artista che aveva tutto contro | Roberta Bosco

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