«Ogni scarpa una camminata; ogni camminata una diversa concezione del mondo», dice Nanni Moretti nel film «Bianca». La «concezione del mondo» di due artiste passa anche attraverso due tipi di calzatura.
1968: sulla spiaggia di Amalfi, nella storica mostra «Arte Povera+Azioni povere», Marisa Merz (Torino, 1926-2019) sceglie l’azione più radicale, quella di non esporre insieme agli altri artisti del gruppo, per lavorare sulla battigia, dove dispone delle scarpette fatte di fili di nylon intrecciato. Sono scarpette fabbricate da una mamma che sei anni prima ha avuto dal marito Mario Merz, incontrato nel 1950, quella che sarà la sua unica figlia, Beatrice, cui quelle calzature sono dedicate, come lo sono, nella stessa occasione, i rotoli di coperte annodate e disposte a formare, soggette al fluttuare della marea, il nome «Bea». Scarpe femminili munite di tacchi alti, forme da calzolaio, protesi ortopediche costellano invece la produzione di Carol Rama (Torino, 1918-2015), sino a diventare una sorta di cifra distintiva di una produzione che manterrà sempre ben salde le sue radici in un immaginario surrealista presente in una città, Torino, scissa tra razionalità e visionarietà.
A Torino, affacciata sul mercato di Porta Palazzo, avevano casa anche Mario e Marisa Merz, ma due retrospettive aperte al Kunstmuseum di Berna possono suggerire, per chi le vuole cercare, anche altri punti di contatto tra due artiste così diverse. 110 le opere che compongono, dal 7 marzo al 13 luglio, «Carol Rama. Una ribelle della Modernità», curata da Marina Weinhart; un’ottantina, tra dipinti, sculture e disegni, quelle scelte dalla curatrice Livia Wermuth per «Ascoltare lo spazio», dedicata sino al primo giugno a Marisa Merz (prossime tappe, dal 30 agosto al 18 gennaio 2026, il Fridericianum di Kassel e poi la Fondazione Merz di Torino).
La «ribellione» di Carol Rama è quella di una figlia della borghesia industriale torinese, rimasta orfana del padre, suicida dopo il fallimento della sua azienda, che decide di essere un’artista a metà degli anni Trenta; ma la sua è anche una storia di problemi psichiatrici e conseguenti ricoveri ospedalieri; di una giovane pittrice che disegna e dipinge falli, vagine, lingue, defecazioni, sedie a rotelle. «Appassionata» (1940), incluso in mostra, è un dipinto fondamentale per decifrarne l’intero percorso: un autoritratto nudo, disteso in un letto, è sormontato da un groviglio di cinti ortopedici neri; un’iconografia del dolore ma anche un elegante ritmo grafico che si ritroverà, in morfologia più sintetica, nella sua fase concretista. Ma è una parentesi: il suo polimaterismo, a partire dagli anni Sessanta, ingloba catrame, riso, smalti ma anche occhi tassidermici; e la gomma delle camere d’aria delle sue opere degli anni Settanta e Ottanta esalta in maniera sempre più evidente la sua somiglianza con il tessuto di visceri e capezzoli.
La ribellione di Marisa Merz comincia con il suo appartarsi dal gruppo poverista e prosegue con modalità nelle quali la dimensione domestica e quotidiana, in controtendenza nell’epoca dei grandi proclami politici e sociali, mantiene una parte primaria. Al neon, sintesi di luminosità ed energia, preferisce la primarietà del filo di rame, che intesse e modella. Non programma nulla: si presenta alle mostre (ma sino agli anni Ottanta, cioè sino alla storicizzazione del Poverismo, e dopo gli esordi, non partecipa a quelle del nucleo storico del movimento) preferendo operare sul momento, e s’è scritto che in questo consiste l’identità tra creazione e generazione, binomio che ha molto a che fare con la maternità. Al monumentalismo dell’arte installativa dei suoi tempi preferisce l’intimismo del modellato in cera (Medardo Rosso è stata spesso citato a proposito del suo lavoro), o in terra, nella quale plasma piccole teste dipinte.
Se Carol Rama parte da una narrazione autobiografica per aprirsi in seguito a esplorazioni formali ed estetiche nelle quali la sessualità, la devianza e l’erotismo assumono echi più dilatati, Marisa Merz, più radicalmente, inizia e prosegue ponendo al centro, ha scritto Luigia Lonardelli, un «femminile» che non avrà bisogno di diventare «femminista», in una quotidiana pratica dell’arte come autoanalisi e autoconoscenza nella quale ogni opera rimanda alla successiva attraverso un «filo invisibile che trova la sua ragione in un percorso biografico, volutamente afono, che viene gelosamente custodito e difeso dalla potenziale violenza del mondo esterno». Ce n’era abbastanza, in questa sua dimensione «anastorica», per essere esclusa (con la distaccata complicità dell’artista) dal meccanismo del sistema dell’arte.