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Una veduta della mostra «The Story of Public Art-Dancing in the Streets (On Power)» al Maps di Køge

© Maps-Museum of Art in Public Spaces. Foto: Jan Søndergaard

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Una veduta della mostra «The Story of Public Art-Dancing in the Streets (On Power)» al Maps di Køge

© Maps-Museum of Art in Public Spaces. Foto: Jan Søndergaard

Nel nuovo Maps di Køge la storia dell’arte pubblica

Una mostra in continua trasformazione propone, in quattro anni, un racconto vivente di interventi nello spazio pubblico dagli anni Sessanta ad oggi con più di 120 artisti da oltre 40 Paesi

Nel 2025, l’istituzione museale danese Køs-Museum of Art in Public Spaces di Køge ha completato la propria trasformazione in Maps-Museum of Art in Public Spaces, segnando un cambiamento significativo nell’approccio alla produzione, raccolta e analisi dell’arte nello spazio pubblico. A inaugurare questa nuova fase è «The Story of Public Art» (La Storia dell’Arte Pubblica) una mostra internazionale inizialmente curata dall’ex senior curator di Maps Charlotte Sprogøe Petersen, articolata in due capitoli «Dancing in the Streets» (Ballare per le Strade) ed «Explosions» (Esplosioni), pensata per svilupparsi nell’arco di quattro anni. L’intento non è quello di proporre una narrazione lineare o definitiva, bensì di offrire uno spazio condiviso in cui leggere in maniera stratificata le pratiche artistiche nello spazio pubblico, dagli anni Sessanta ad oggi, attraverso le opere di oltre 120 artisti provenienti da più di 40 Paesi.

Abbiamo incontrato Irene Campolmi, attuale senior curator di Maps, per approfondire le traiettorie di ricerca e le scelte curatoriali che hanno dato forma al progetto.

Può presentarci il museo e la sua particolare missione?
Maps è il nuovo nome del Museum of Art in Public Spaces di Køge. Il museo è stato fondato nel 1977 come Køge Skitsesamling (Collezione di bozzetti) ed è stato conosciuto come KØS dal 2009, con una missione dedicata alla raccolta di bozzetti di artisti che lavoravano nello spazio pubblico. Dopo un lungo processo di ridefinizione, il nome è cambiato nel gennaio 2025, quando ci siamo resi conto che l’arte pubblica del XXI secolo non riguarda più semplicemente i bozzetti di sculture o monumenti, ma sta evolvendo in qualcosa di diverso. Il nome ora riflette anche la missione del museo, che è quella di mappare il panorama nazionale e internazionale dell’arte negli spazi pubblici e di riconsiderare la definizione stessa di «spazio pubblico» da una prospettiva storica e globale, attraverso ricerca, interpretazione, esposizione e narrazione delle molteplici storie dell’arte pubblica nel mondo, passate e presenti.

Avete inaugurato questo nuovo percorso con un progetto denso e articolato, «The Story of Public Art».
«The Story of Public Art» nasce con l’intento di creare una mostra semipermanente che possa cambiare organicamente nel corso di quattro anni, offrendo al contempo una narrazione visiva di che cosa sia stata e che cosa sia oggi l’arte pubblica. L’esposizione occupa i due piani principali del museo, incluso il corridoio al piano terra, dov’è installata in modo permanente l’opera «Passage» (Passaggio) di Maria Hassabi. La mostra traccia una storia vivente di interventi artistici nello spazio pubblico, dagli anni Sessanta ad oggi, con più di 120 artisti provenienti da oltre 40 Paesi. Non si tratta solo di una narrazione sull’arte pubblica: è arte pubblica in pieno svolgimento. È una mostra in continua trasformazione, che riflette l’idea che non esista una sola storia canonica dell’arte pubblica, ma una pluralità di storie che si sviluppano simultaneamente a livello globale, storie non solo pertinenti al contesto occidentale. Il progetto vuole inoltre evidenziare il ruolo svolto dagli artisti non-binari, e molte delle opere partono da prospettive femminili o non-maschili.

Una veduta della mostra «The Story of Public Art-Dancing in the Streets (On Power)» al Maps di Køge. © Maps-Museum of Art in Public Spaces. Foto: Jan Søndergaard

In che modo l’arte pubblica è mutata dagli anni Sessanta ad oggi?
L’arte pubblica è stata spesso associata a monumenti e presenze fisiche nello spazio urbano, e quindi come manifestazione di un certo potere politico. Noi volevamo raccontare un’altra storia dell’arte pubblica, che partisse consapevolmente dalle azioni delle artiste di genere o identificazione femminile. La mostra è divisa in due parti, ognuna articolata in «atti»: li chiamiamo così perché la narrazione si sviluppa come una composizione teatrale e a ogni visita viene offerta un’esperienza diversa. Abbiamo scelto di partire dagli anni Sessanta, quando in tutto il mondo gli artisti iniziarono a usare lo spazio pubblico come palcoscenico e vetrina per la propria pratica, fosse questa pittura, scultura, arte concettuale, performance o affissioni. Abbiamo preferito evitare un ordine cronologico, per creare un dialogo tra pratiche che si rispecchiano attraverso i decenni. Inserendo nuove narrazioni e ricerche contemporanee, speriamo di offrire una lettura alternativa rispetto a quella trasmessa dalla storiografia dominante.

Lo studio di design Formafantasma (Andrea Trimarchi e Simone Farresin) ha curato l’allestimento della mostra. In che cosa consiste il loro intervento?
Formafantasma ha creato un ambiente onirico che mette in discussione i limiti del White Cube, offrendo un’esperienza tattile, immersiva, quasi sinestetica, capace di generare sguardi nuovi e inattesi. Il loro progetto di allestimento del piano superiore evoca la vitalità degli ambienti urbani. Lo spazio è animato da una costellazione di schermi di varie dimensioni e altezze, che proiettano in loop video di diversi artisti ispirandosi a luoghi simbolici dell’immaginario urbano come Times Square, dove molteplici voci convivono e si contendono l’attenzione del pubblico. L’approccio di Formafantasma sembra fondarsi sull’essere presenti là dove il visitatore meno se lo aspetta, utilizzando materiali che solo indirettamente fanno riferimento al contesto urbano, come cemento, vetro e acciaio. L’elemento sorpresa, l’incontro inaspettato, definisce buona parte dell’arte pubblica contemporanea: la si incontra per caso, non la si cerca. Questo tratto è evidente anche al secondo piano, dove diversi materiali d’archivio sono presentati su pannelli pieghevoli, da aprire e consultare come in un archivio. In questa parte della mostra l’intento era quello di trasmettere una sensazione di molteplicità, una convergenza di storie che si sviluppano simultaneamente. Anche se mappare una storia globale dell’arte pubblica oggi può sembrare impossibile, abbiamo voluto evocare una sorta di cacofonia controllata, uno spazio stratificato e polifonico che resiste a narrazioni univoche.

Che cosa immagina per il futuro dell’arte pubblica?
Che si manifesterà dove non ci si aspetta di trovarla. La si incontrerà laddove ci sarà bisogno di una rivoluzione. 

Una veduta della mostra «The Story of Public Art-Dancing in the Streets (On Power)» al Maps di Køge. © Maps-Museum of Art in Public Spaces. Foto: Jan Søndergaard

Matteo Mottin, 23 aprile 2025 | © Riproduzione riservata

Nel nuovo Maps di Køge la storia dell’arte pubblica | Matteo Mottin

Nel nuovo Maps di Køge la storia dell’arte pubblica | Matteo Mottin