In tempi di catastrofi ambientali potrebbe sembrare un paradosso, ma «La natura ama nascondersi», il sottile aforisma sulla conoscenza del filosofo presocratico greco Eraclito, dal quale è tratto il titolo dell’evento, è invece una chiara dichiarazione dell’intento su cui riflette la XIX edizione di Fotografia Europea, il festival promosso e organizzato dalla Fondazione Palazzo Magnani e dal Comune di Reggio Emilia con il contributo della Regione Emilia-Romagna, che dal 26 aprile al 9 giugno torna ad animare la città con centinaia di proposte diffuse tra spazi ufficiali e off.
«Dopo duecento anni, in questa società così connessa, la fotografia ha ancora la capacità di farci capire cose che non sapevamo», afferma Walter Guadagnini, direttore artistico di Camera e della manifestazione dal 2018, per sottolineare la funzione del medium fotografico come strumento di diffusione del sapere e di sensibilizzazione delle coscienze. Luce Lebart, ricercatrice dell’Archive of Modern Conflict, anche lei alla direzione artistica insieme a Tim Clark, sottolinea che a guidare la selezione dei progetti è stata «una visione attenta alla contemporaneità che non vuole indagare il tema dal punto di vista puramente ambientale, ma piuttosto approfondire l’effetto dell’influenza umana sulla natura partendo da un approccio filosofico».
In questa edizione, l’idea di natura non si limita, infatti, a visioni puramente fenomeniche, non significa concentrarsi soltanto sul paesaggio, ma aprirsi a un’indagine molto articolata, in alcuni casi documentaria, in altri interpretativa della fatale relazione che l’uomo ha con l’ambiente dal punto di vista sociale, culturale, politico, economico, affettivo. La proposta espositiva nel suo complesso, tarata su un livello alto di tecnica e di impegno civile, offre una vasta panoramica internazionale di autori e temi, come l’incanto delle nuvole oppure lo sfruttamento di risorse richiesto dai bitcoin, la difesa di un orto urbano parigino e le millenarie tradizioni di popoli misconosciuti dell’Asia, le aree interne dell’Appennino emiliano e il vitalismo del paesaggio sudafricano, l’invasione delle cavallette e l’umanizzazione degli animali da compagnia. Una varietà di indagini e presentazioni che hanno tutte una stretta pertinenza con il nostro tempo e che lasciano trapelare una sincera urgenza di «dire» attraverso il racconto visivo, quasi dovessero rispondere a una chiamata che non concede più proroghe.
Spicca in Palazzo Magnani la grande rassegna «Mediations», prima monografica in Italia di taglio antologico dedicata a Susan Meiselas, attuale presidente di Magnum, della quale opere, libri, film e installazioni ricostruiscono la ricerca sull’umanità dagli anni Settanta a oggi. Nei cinquecenteschi Chiostri di San Pietro ben dieci esposizioni creano un’atmosfera decisamente cosmopolita: la collettiva «Sky Album. 150 years of capturing clouds» a cura di Luce Lebart e Michelle Wilson celebra la vastità e la bellezza delle nuvole e come la loro ricorrente presenza nella pratica di fotografare il cielo venga perseguita da scienziati, dilettanti e artisti con oltre centocinquanta opere a partire dagli albori della fotografia; il progetto espositivo di Helen Sear dal titolo «Within Sight» che combina fotografia e interventi diretti dell’artista per restituire l’esperienza molteplice dell’essere in natura; Yvonne Venegas, che con «Sea of Cortez» descrive lo sfruttamento dei territori intorno al Mar di Cortez; «The Shunyo Raja Monographies», un progetto coraggioso del fotografo indiano Arko Datto che da nove anni lavora sugli effetti del cambiamento climatico a livello umanitario e ambientale; «There’s no calm after the storm» del fotografo veneziano Matteo de Mayda, una complessa installazione documentaria che indaga l’impatto a lungo termine della tempesta Vaia abbattutasi sul Nord Est dell’Italia nel 2018; «Landscaping» di Jo Ractliffe dedicata al paesaggio sudafricano interpretato come un’essenza vitale che conserva la memoria del passato; «Permafrost» di Natalya Saprunova che racconta la vita delle popolazioni meno conosciute dell’estremo nord del continente asiatico, come i pastori di renne Evenki e gli allevatori stanziali Yakuti; «Cloud Physics» dell’americana Terri Weifenbach che presenta una serie di fotografie realizzate in un istituto di ricerca americano dedito allo studio e alla misurazione delle nuvole; «An Act of Faith: Bitcoin and the Speculative Bubble» di Lisa Barnard ambientato in Islanda, che riflette sullo sforzo ambientale richiesto dalla creazione di beni immateriali come i bitcoin; «Community Gardens of Vertus, Aubervilliers» che Bruno Serralongue dedica alla battaglia iniziata nel 2020 da alcuni giardinieri per opporsi all’abbattimento di oltre 4mila metri quadrati di orti per far spazio alle nuove costruzioni per i Giochi Olimpici di Parigi 2024.
Nel Palazzo da Mosto è invece esposta la produzione commissionata da Fotografia Europea 2024 al giovane italo-marocchino Karim El Maktafi, che con il progetto «day by day» esplora la relazione profonda e fragile tra uomo e natura nelle aree interne dell’Appennino emiliano. Nella stessa sede, con il titolo «Index Naturae», sono esposti 116 libri fotografici pubblicati negli ultimi cinque anni, dedicati alla natura e selezionati da Stefania Rössl e Massimo Sordi (Omne-Osservatorio Mobile Nord Est), accanto ai due progetti, «Shifters» di Marta Bogdańska e «Nsenene» di Michele Sibilioni, scelti da una giuria tra oltre 500. Nella Villa liberty Zironi, «Radici» di Silvia Infranco si ispira agli erbari fitoterapici. Tra gli eventi collaterali, infine, al Palazzo dei Musei nella mostra «Zone di Passaggio» alcuni memorabili notturni di Luigi Ghirri, a Reggio Emilia e non solo.