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Chiara Massimello
Leggi i suoi articoliDa secoli esiste un rapporto culturale privilegiato tra Italia e Francia, quasi sempre in una sola direzione. Quel che arriva dalla Francia, o ha subito l’influenza francese, si illumina di un alone di prestigio e di un più profondo contenuto intellettuale. A partire dalla seconda metà dell’Ottocento, i pittori italiani che soggiornano a Parigi ed entrano in contatto con la vivacità culturale della città acquistano rispetto internazionale, attenzione e spesso anche il riconoscimento del mercato. Giovanni Boldini, Federico Zandomeneghi, Antonio Mancini e il più francese di tutti, Gino Severini, che entra in contatto con le avanguardie e dal 1906 si trasferisce a Parigi.
Fino alla seconda guerra mondiale, molti sono gli artisti italiani che si spostano in Francia e qui trovano la loro realizzazione artistica. Sono gli anni di Amedeo Modigliani, dei soggiorni nella capitale di Giorgio de Chirico, dell’amicizia di Campigli con Picasso e Léger, della pittura melanconica di de Pisis. La città è l’indiscussa capitale dell’arte, il luogo in cui pittori, musicisti e letterati vogliono e devono esserci. Oggi la situazione è molto cambiata, il centro dell’arte si è spostato negli Stati Uniti e muove verso Oriente. Tuttavia, quattro artisti italiani, molto diversi tra loro, sono esposti, (quasi) contemporaneamente, in quattro differenti mostre parigine, tutte di grande prestigio.
Fino al 27 giugno espone al Beaubourg uno dei grandi protagonisti della pittura italiana del XX secolo, Giorgio Griffa. 18 opere, realizzate tra il 1969 e il 2020, donate al Museo Nazionale di Arte Moderna dall’artista. Opere astratte, in cui coabitano segni e colori, lettere e cifre, purezza e semplicità. Composizioni austere e gioiose, apparentemente semplici, dipinte su tela grezza, non montata su telaio, con colori tenui. Una mostra importante per il pittore torinese, una retrospettiva che culmina nell’opera del 2020, «La Recherche», omaggio a Marcel Proust. 24 tele trasparenti e in parte sovrapposte, realizzate appositamente per il Centre Pompidou, in cui, come per l’opera letteraria, il trait d’union è la poesia.
Sempre al Beaubourg si è da poco conclusa la grande retrospettiva dedicata a Ettore Sottsass, «L’objet magique»: 400 oggetti unici dagli anni Quaranta agli anni Ottanta. Il museo ha scelto di esporre oggetti di design, dipinti, fotografie di viaggio (molto belle), disegni e documenti. Alcune ceramiche degli anni Cinquanta, i totem, i mobili container tra design e architettura (1960-70), i lavori del gruppo Memphis (dal 1981) e una ricostruzione storica (come solo al Pompidou sanno fare) di un’esposizione realizzata a Stoccolma nel 1969. Ma Sottsass lo si può ancora vedere nella nuova galleria Perrotin, in avenue Matignon nella mostra «Tout n’est qu’influence». Nelle sale dipinte a tinte vivaci, le sue forme e i suoi colori si appropriano dello spazio con una forte carica emotiva e sensoriale. Totem e vasi del designer italiano sono esposti accanto alle opere di Tom Wesselmann, Jasper Jones e Andy Warhol. Un confronto con i grandi americani che Sottsass dimostra di reggere egregiamente.
Un po’ inaspettata è la presenza di un altro italiano, Armando Testa, nell’ultima sede nata della Galleria Continua. Il bellissimo e fascinoso spazio parigino, da poco aperto in rue du Temple, presenta alcuni lavori del grande pubblicitario e artista torinese accostati a opere storiche e contemporanee degli artisti della galleria. Sono esposte alcune delle sue invenzioni grafiche, tra ricerca e cultura popolare, ispirate dalle sperimentazioni delle avanguardie, dalla Pop art e dall’Arte concettuale. Grandi stampe su carta montate su tela dei manifesti inventati per importanti campagne pubblicitarie, talora collegate a istituzioni culturali e di impegno sociale («Meglio il divorzio che inchiodati nell’odio», «Chi dona ai poveri non sarà mai nel bisogno»), oggetti iconici come la «michetta energetica» (1968), o Caballero e Carmencita per Lavazza. La celebre «Lampadina Limone» (1968) e infine «Uno e Mezzo», in alluminio e smalto rosso, simbolo storico del vermouth Punt e Mes (1960). Accostamenti liberi e ironici di un insaziabile visionario, simbolo della vivacità creativa italiana, che ha saputo rappresentare gli anni del nostro boom economico creando intramontabili icone della comunicazione.
Un ritorno parigino (dopo la grande retrospettiva del 2015) è invece quello di Carol Rama. Fino al 7 maggio è aperta nella galleria Lévy Gorvy nel Marais la mostra «CarolRama Coralarma Claromara Arolcarma Coralroma Ormalacra Carmarola». Il titolo anagrammato nasce dalla composizione dedicata all’artista da Man Ray nel 1974 e poi incorniciata da Rama per la sua casa e studio torinese. Dedicata ai lavori tra gli anni Sessanta e Settanta, la mostra ha anticipato la presenza di Carol Rama alla 59ma Biennale di Venezia curata da Cecilia Alemani. Sono esposti i Bricolage degli anni Sessanta, ispirati al Surrealismo, e i pezzi astratti, con gomme e tubi, degli anni Settanta. Lavori inediti, poetici e toccanti, opere storiche e materiale prestato dall’Archivio e dallo studio torinese, dove l’artista visse dal 1940 al 2015.
A distanza di due secoli, Parigi è ancora il luogo prediletto per l’arte italiana. La contemporaneità di tante mostre conferma che qui è benvenuta, stimata e promossa. A Parigi l’ambiente è internazionale ma al tempo stesso «domestico», un clima vivace di gallerie che crescono anche grazie alla Brexit di musei operosi e propositivi, di istituzioni dedite alla cultura. Il consenso d’oltralpe favorisce rispetto e fama dei nostri artisti.

Giorgio Griffa di fronte a una sua opera esposta al Centre Pompidou