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La Cassetta Farnese. Foto: Amedeo Benestante

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La Cassetta Farnese. Foto: Amedeo Benestante

Per i Farnese l’arte era uno strumento di potere

Gli ambienti più spettacolari della Pilotta ospitano 300 opere da collezioni italiane ed europee, che esaltano l’aspirazione della dinastia all’ideale estetico come affermazione della virtù politica e di stirpe

Giovanni Pellinghelli del Monticello

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Dal 18 marzo al 31 luglio, il Complesso Monumentale della Pilotta di Parma rinnova gli splendori ducali e presenta la mostra «I Farnese. Architettura, Arte, Potere», fra i progetti di Parma Capitale della Cultura 2020+21 e realizzata in collaborazione con Università di Parma, Museo e Real Bosco di Capodimonte, Museo Archeologico Nazionale di Napoli, Archivio di Stato di Parma.

A venticinque anni dall’ultima mostra «farnesiana», questa fastosa esposizione è dedicata alla committenza della famiglia Farnese, con l’obiettivo d’indagare la straordinaria affermazione della casata nella compagine politica e culturale europea dal Cinque al Settecento attraverso l’innovativo e strategico utilizzo delle arti come strumento di legittimazione.

Una vocazione al bello e all’artistico perfino naturale, viene da dire, per una famiglia feudale del Lazio (fino al tardo Quattrocento estranea ai giochi del potere pontificio) che, al di là delle innate ambizioni culturali e dei propri innegabili valori personali, trovò nella bellezza (quella del giovane Cardinale Alessandro Farnese poi papa Paolo III, e soprattutto quella dell’ancora più bella sorella Giulia, detta nella Roma del primo Cinquecento «La Bella» per antonomasia e amata con passione irrefrenabile dal «più carnale homo» dei suoi tempi: papa Alessandro VI Borgia) la chiave evolutiva della propria ascesa politica fino ad assurgere al rango di principi sovrani protagonisti dello scacchiere politico italiano ed europeo.

E seppure tale bellezza fisica non si conserverà nei successivi discendenti, l’aspirazione all’ideale estetico come affermazione della propria virtù politica e di stirpe rimase costante nelle vicende familiari. Fu così che le collezioni d’arte ed antichità classiche dei Farnese rivaleggiarono da Parma e Piacenza con quelle dei Medici a Firenze, della Celeste Galleria dei Gonzaga a Mantova e delle raccolte degli Este a Ferrara e poi (seppure queste impoverite dalla remissione dell’avito ducato allo Stato Pontifici) a Modena.

E fu un susseguirsi di generazioni di duchi, cardinali e principi cadetti tutti appassionati d’arte e d’architettura che, seppure sempre meno belli, obesi e malandati in salute, seppero con forza tramandare un patrimonio inenarrabile. Ricchezza inestimabile d’arte e cultura di cui però, all’estinguersi mascolino della dinastia, Parma fu sfortunatamente in gran parte deprivata dai giochi della diplomazia perché Carlo, erede dell’ultima Farnese Elisabetta (Regina di Spagna e vero canto del cigno del dinastia), diventando, da primo borbonico duca di Parma e Piacenza, primo borbonico re di Napoli e Sicilia, gelosissimo di quei tesori, li volle con sé a Napoli sua nuova capitale, sottraendoli così al fratello Filippo successore e al Ducato parmigiano.

Curato da Simone Verde con Bruno Adorni, Carla Campanini, Carlo Mambriani, Maria Cristina Quagliotti, Pietro Zanlari, l’approccio scientifico della mostra ha il pregio di una doppia novità che è doppio punto di forza. Il primo è l’impostazione voluta dal curatore Simone Verde che guarda al collezionismo farnesiano con gli strumenti della «Storia Globale» (e quindi in ottica squisitamente warburghiana arricchita di fattori e analisi storicopolitici e diplomatici e perfino esegetici) per configurare quella «visione del mondo» che Paolo III Farnese cercò di attuare nell’epoca cruciale della Controriforma, così da spiegare come tutto nella vicenda politica e privata dei Farnese si riconduca alla complessa e strategica concezione paolina dell’assetto europeo, che proprio allora si apre a significare anche «mondiale» (e da cui la bolla «Sublimis Deus» del 1537 con la quale Paolo III riconosceva piena dignità umana agli Indios d’America e condannava la loro schiavitù e spoliazione).

Questo spiega con ricchezza di argomentazioni e di entusiasmo il direttore della Pilotta Simone Verde, che aggiunge: «Quando nell’ottobre 1534 Paolo III divenne pontefice, Roma non poteva trovarsi in acque peggiori. L’Europa era stravolta dal conflitto tra Francesco I e Carlo V, gli Ottomani spadroneggiavano nel Mediterraneo ed erano arrivati in terra fino in Polonia e la Chiesa sopravviveva attaccata, infamata, svilita dallo scisma anglicano, da quello luterano, dal Sacco di Roma, tesa solo a salvarsi dalla morsa di quei due alleati infidi e inaffidabili e nemici fra loro.

A ovviare al disastro, Paolo III lanciò la Controriforma, oggi vista in modo appannato e deviante come reazione retriva a slanci libertari, ma che invece fu nella sua intenzione creatrice di una sorta di “Restauratio Romae”, un riportare allo splendore dell’antico la Chiesa Cattolica e Roma, riaffermardone la potestà politica e religiosa: rotta e umiliata ma non piegata, e pronta a risollevarsi in tutta la sua magnitudine terrena e spirituale.

Nel rivoluzionario programma controriformistico (che toccava
ogni aspetto pubblico e privato e che all’arte dedicò lo specifico lavoro del cardinale Paleotti), il mecenatismo e l’utilizzo delle Arti come manifestazione politica di rinnovata forza e virtù, assumono per il pontefice (che tanto volle restaurare la grandezza del Papato e di Roma a livello “mondiale” quanto creare e affermare quella della sua famiglia elevandola a rango di dinastia europea) a ruolo nevralgico e di duplice livello e funzione: statale per la Chiesa e familiare e privato per i Farnese e la loro ascesa al rango sovrano».

Secondo pregio della mostra è aver sovvertito l’arbitraria separazione della critica ottocentesca fra Belle Arti e Architettura, così da includere nello studio anche le importanti fabbriche architettoniche, dalle quali non si può prescindere per comprendere appieno l’ampiezza della visione farnesiana del mecenatismo, ancora una volta strumento pubblico e privato.

La rassegna presenta così oltre 300 opere provenienti dalla Collezione Farnese a Parma e da collezioni pubbliche e private italiane ed europee: da Raffaello, Tiziano, El Greco e Annibale Carracci fino a, per la prima volta in Italia, la Messa di San Gregorio realizzata in Messico dagli Indios per ringraziare Paolo III della citata bolla «Sublimis Deus», accanto ad antichità classiche ed alessandrine e a plastici e progetti delle architetture farnesiane.

Puntualizza ancora Simone Verde: «Il collezionismo di Paolo III e farnesiano poi è ricerca eclettica, scenografica, lussuosa di pezzi d’arte come trofei e di materiali preziosi, metalli e pietre. Ed è sincretico, abbraccia più epoche e stili, anche qui rifacendosi Paolo III, e poi i suoi eredi, a quell’ideale che il giovane cardinale Alessandro aveva ritrovato in Alessandro Magno e nella koinè alessandrina. Ideale koinè che il pontefice Paolo III volle ricostruire anche nella “sua” Chiesa rielevata a riferimento universale».

L’esposizione avrà il naturale scenario degli ambienti più spettacolari del Complesso Monumentale della Pilotta, esso stesso voluto dai Farnese: appena avviato da Paolo III, incrementato dal nipote Ottavio (che fece costruire il «Corridore» che lega il vecchio Palazzo Ducale all’antica Rocchetta Viscontea e che costituisce l’asse portante del complesso) e ripreso dal 1602 al 1611 e poi dal 1618 al 1622 da Ranuccio I, duca spregiudicato e spietato e uomo ombroso e oscuro così come cupa e scontrosa è questa reggia incompiuta (per pecunia di fondi) che ebbe a modello l’ancor più lugubre Escorial di Filippo II di Spagna (e lo stesso architetto: Giovan Battista Castello «il Bergamasco»).

Inserita nel più ampio progetto di rilancio della Pilotta (che nel 2022 inaugurerà la totalità dei suoi spazi restaurati e riallestiti), la mostra è allestita nei più eleganti e ariosi degli ambienti (alcuni rivisitati e ingentiliti da Filippo I di Borbone): i Voltoni del Guazzatoio (cortile interno atto a trasformarsi in bacino d’acqua per le naumachie, allora tanto popolari, ma dove fin dai tempi iniziali della corte farnesiana si giocava alla «pelota», da cui il nome della reggia), il mirabile Teatro Farnese, la Galleria Petitot della Biblioteca Palatina e la Galleria Nazionale.

Una serie di pubblicazioni di Electa approfondisce le complesse vicende del collezionismo farnesiano e della committenza artistica e architettonica dei duchi di Parma e Piacenza.

La Cassetta Farnese. Foto: Amedeo Benestante

Tiziano, «Ritratto di Papa Paolo III», 1543 (particolare)

Raffaello, «Ritratto del Cardinale Alessandro, futuro Papa Paolo III», 1509-11

Giovanni Pellinghelli del Monticello, 14 marzo 2022 | © Riproduzione riservata

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