In occasione della 60ma Esposizione Internazionale d’Arte - La Biennale di Venezia, come evento collaterale presso l’Istituto Santa Maria della Pietà, sarà esposta, per la prima volta in assoluto in Europa, la leggendaria serie, firmata da Peter Hujar a metà anni Settanta, «Portraits in Life and Death», all’interno della mostra «Peter Hujar: Portraits in Life and Death» (dal 20 aprile al 24 novembre).
Autore che si insinua tra la sensibilità umana e visiva di Diane Arbus e il rigore scultoreo di Robert Mapplethorpe, Peter Hujar è stato un autore troppo poco apprezzato in vita e riscoperto solo dopo la sua morte, avvenuta per complicanze dovute all’Aids, nel 1987. Quello che principalmente lo rendeva unico era non tanto l’immagine finale, ma il processo di spoliazione di cui il suo sguardo si rendeva artefice sul soggetto posizionato davanti al suo obiettivo. Un’esposizione delle vulnerabilità altrui, commovente e poetica, che pochi fotografi hanno raggiunto ai suoi livelli.
Pubblicato come unico libro prodotto dal fotografo americano nel 1976, Portraits in Life and Death è un’attenta ed intima riflessione sulla mortalità, sul concetto di «memento mori», riferito all’individuo, ma anche alla natura stessa del mezzo fotografico. Tra il 1974 e il 1975, appositamente per la produzione del libro, Peter Hujar immortalò alcuni dei suoi amici, scrittori, artisti, registi, drammaturghi, tutti appartenenti alla scena culturale newyorkese, cogliendoli in una particolare connessione empatica e intima, come era solita manifestarsi la sua intera poetica, così delicata ma anche così rivelatrice dell’essenza umana. A questi ritratti contrappose, per l’editing del suo progetto, una serie di immagini prodotte nel 1963, in occasione di un viaggio in Sicilia, dove fu affascinato dai corpi mummificati conservati all’interno delle Catacombe dei Cappuccini di Palermo.
«Portraits in Life and Death» è il risultato di questa interazione visiva di corpi, che dialogano tra la vita e la morte, in cui viene figurativamente rappresentata anche la funzione di «memento mori» della fotografia, attraverso cui la mortalità rappresentativa entra in dialogo con quella corporea. Nei corpi, vivi, degli amici di Hujar già si intravede, in proiezione, il loro passaggio dalla carne alle ossa e quello che in questi ritratti è solo latente diventa manifesto nei corpi mummificati delle Catacombe dei Cappuccini.
Hujar aveva il potere di creare con il suo soggetto un’unione che andava oltre l’intimità, che implicava l’erotismo, l’essenza umana, le pulsioni più ataviche e ancestrali, forse per questo motivo i suoi ritratti ricordano quelli che E. J. Bellocq fece a New Orleans, agli inizi del Novecento, alle prostitute di Storyville, il quartiere a luci rosse che frequentava molto spesso. In entrambi i fotografi, il loro sguardo si rendeva organico con i loro soggetti, penetrante, mai invadente o voyeuristico, rivelatore del conflitto interiore tra eros e thanatos. Come scriveva anche Susan Sontag, nell’introduzione di Portraits in Life and Death di Hujar, «i fotografi, conoscitori della bellezza, sono anche, consapevolmente o inconsapevolmente, gli angeli della morte», specchio, per l’uomo e i propri soggetti, della presente carnalità ma anche della futura e imprescindibile morte.