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Alzi la mano chi, minimamente informato sull’arte, sentendo pronunciare il nome di Giacomo Ceruti non aggiunga mentalmente «detto il Pitocchetto». Dopo la mostra «Miseria & Nobiltà. Giacomo Ceruti nell’Europa del Settecento», curata da Roberta D’Adda, Francesco Frangi e Alessandro Morandotti per il Museo di Santa Giulia (dal 14 febbraio al 28 maggio), non sarà più così, tanto che l’appellativo è perfino scomparso dalle didascalie: «non certo per polemica, spiega Roberta D’Adda, ma per pura filologia. Dalle ricerche, sembra che il soprannome sia un’invenzione novecentesca. Vero è che nell’800 Ceruti è raramente citato, ma quando figura nelle fonti non lo è mai con quest’appellativo».
D’ora in poi, perciò, dimentichiamo quel soprannome, non solo perché una larga parte della sua produzione va in tutt’altra direzione rispetto alla pittura pauperista così amata dalla committenza aristocratica bresciana ma soprattutto perché la sua arte successiva, continua Roberta D’Adda, «dà prova di una grandissima capacità d’innovazione. Tanto che Mina Gregori, i cui studi su Ceruti, con quelli di Giovanni Testori, sono ancora oggi fondamentali, parla di lui come del “pittore più avventuroso” del Settecento».
Per dimostrarlo, la mostra, che è un progetto di Fondazione Brescia Musei e Skira, coordinato da Stefano Karadjov e sviluppato in collaborazione con il Getty Center di Los Angeles (dove si trasferirà dal 18 luglio), riunisce 60 opere di Giacomo Ceruti (Milano, 1698-1767) e le mette a confronto con 40 lavori di autori precedenti o a lui contemporanei, stranieri o italiani noti in Europa.
Dottoressa D’Adda, la vostra mostra mette in risalto la dimensione sfaccettata di Ceruti, liberandolo dall’etichetta pauperista che l’ha accompagnato da che è stato riscoperto. Perché questa svolta?
Ci troviamo di fronte a un artista capace di attraversare generi molto diversi, all’apparenza anche contrastanti: quando, dopo Brescia, Ceruti giunge a Venezia, i suoi riferimenti cambiano e la sua pittura (ritratti e scene popolari soprattutto) si nobilita. Anche quando riprende temi a lui cari, li declina in modo diverso, e i ritratti specialmente non hanno più nulla della severità cromatica dei dipinti pauperisti, ma sono spumeggianti di colori. Credo che, alla luce delle indagini recenti, si tratti di una mostra necessaria, dopo quella curata, sempre a Brescia, nel 1987, da Mina Gregori e Bruno Passamani.
Una lettura inedita, dunque. Come l’avete documentata?
Abbiamo messo il pittore a confronto con artisti di fama europea, proponendo credo una scelta rigorosa e mai casuale. La mostra del 1987 era strettamente monografica, oggi abbiamo dato ampio spazio al contesto, inserendo opere di confronto in ogni sezione: i ritratti giovanili, per esempio, sono immessi in una genealogia che da Moroni arriva fino a Fra Galgario. Per ciò che riguarda la tradizione della pittura popolare, occorreva aggiornare il novero dei fatti precedenti e coevi, perché è chiaro che Ceruti interviene con una sensibilità nuova entro una tradizione iconografica consolidata. Si tratta di una vicenda che ha origini lontane ma trova nuovi orizzonti a seguito della rivoluzione di Caravaggio, attento a ritrarre con dignità i ceti umili, con riflessi che giungono fino a Jusepe de Ribera o a Michael Sweerts, presenti in mostra. Sul fronte della tradizione lombarda, poi, abbiamo inserito Giacomo Cipper (il Todeschini, Ndr) e Monsù Bernardo, stranieri ma attivi in Lombardia, e Sebastianone e Pietro Bellotti, oltre a un’opera monumentale di un anonimo artista vicino a Pietro Bellotti, con una scena di popolani all’aperto, mai vista in pubblico fino ad oggi. Fatti ben noti ma anche insoliti punteggiano la mostra, com’è il caso delle opere degli ancora misteriosi maestri noti con i nomi provvisori di «Maestro della tela jeans» o di «Maestro dell’Ambulante Canesso».
Questo per la pittura pauperista. E dopo?
Chiusa questa fase «popolare», ci siamo concentrati sui ritratti e sulle scene arcadiche, mettendo i suoi dipinti a confronto con quelli di Guardi, Piazzetta, Pittoni, Tiepolo, e Domenico Maggiotto, perché l’influsso veneziano resta fondamentale fino alla fine della sua vita. Senza dimenticare il confronto con pittori come il ritrattista francese Hyacinthe Rigaud, di cui è documentata la fortuna in Italia. Nonostante questa carriera vivace, il pittore sarà in sostanza dimenticato fino agli anni Venti del ’900, quando prenderà avvio la sua riscoperta, incentivata soprattutto da Roberto Longhi.
La tappa del Getty Museum vedrà delle variazioni nella mostra?
Si tratterà sempre di una monografica, la sua prima all’estero, curata da Davide Gasparotto e concentrata sulla produzione pauperista (il titolo sarà «Giacomo Ceruti. The Compassionate Eye»), non solo perché per loro si tratta di una novità assoluta ma anche perché a Los Angeles, città che vive la terribile emergenza della nuova povertà e degli homeless, si ha una speciale sensibilità per questi temi. Da Los Angeles arriva invece alla Pinacoteca Tosio Martinengo l’opera, ispirata a Ceruti, commissionata a David LaChapelle, che sarà esposta in Pinacoteca Tosio Martinengo con il ciclo d’immagini «Jesus is my Homeboy».
Nel Museo di Santa Giulia c’è anche la mostra «Immaginario Ceruti. Le stampe nella bottega del pittore», a cura di Francesco Ceretti e sua.
È un invito alla mostra principale, che muove da alcune considerazioni di Mina Gregori e che, attraverso incisioni dei Musei Civici Bresciani, le mette a sistema. Tratta delle fonti di Ceruti: immagini a stampa cui spesso attingeva per necessità compositive o tematiche. Da Callot traeva le architetture e i figuranti sugli sfondi, per le scene pastorali ricorreva a Johann Heinrich Roos o a Nicolaes Berchem; ad altri ancora per i soggetti mitologici. Diventano così evidenti la sua vasta cultura visiva da un lato e dall’altro il suo modo di lavorare. Come se entrassimo nella sua bottega.

«Fumatore» (1736 ca), di Giacomo Ceruti. Roma, Palazzo Barberini, Gallerie Nazionali d’Arte Antica