Come parlare di violenza senza perpetuarla, in un contesto globale caratterizzato da guerre reali e guerre di immagini a cui siamo costantemente esposti? L’artista ucraino Mykola Ridnyi (Kharkiv, 1985) tenta di farlo ricorrendo all’uso di metafore sulla cecità, in un corpus di opere sulla guerra in Ucraina presentate al Foto Forum di Bolzano fino al 21 dicembre in occasione della mostra curata da Sabine Gamper «Loss of vision».
Nella serie «Blind Spot» (2014), a fotografie ritrovate di paesaggi, strade ed edifici distrutti nei combattimenti, Ridnyi sovrappone le macchie di oscurità con cui è percepito il «punto cieco» di un occhio colpito da difetti della vista come il glaucoma o lo scotoma. È forte il parallelismo voluto fra il corpo e la politica, fra la malattia che intacca la vista dell’uomo e la propaganda che mina la nostra capacità di osservare con spirito critico la realtà.
Una graduale perdita della vista che colpisce metaforicamente anche i media occidentali, attenti ai conflitti caldi, prima in Siria, oggi in Medio Oriente, ma lontani dai tanti «conflitti congelati» che caratterizzano tutto il contesto post-sovietico e, da almeno un decennio, soprattutto l’Ucraina. Attraverso appunti, collage di foto digitali e mappe di territori contesi o già conquistati, nella serie «Gradual Loss of Vision» (2017) Ridnyi ci interroga sulla capacità di reagire alle sfide attuali, ricorrendo ancora a un paragone con la sfera fisica dell’uomo: «Se una persona si addormenta e preme sull’area del punto cieco nella regione del ponte nasale, al risveglio la vista non tornerà immediatamente. L’immagine reale resterà sfocata per circa un minuto, per poi tornare gradualmente a essere riconoscibile. È esattamente così che reagiamo ai problemi politici quando tornano alla ribalta mediatica dopo esserne stati fuori per un po’ di tempo: la reazione arriva con ritardo, risultando così ininfluente nel tentativo di risoluzione di un problema urgente».
Alla serie «In Daylight» (2018), incentrata sui leader delle forze politiche di destra che usano i social media come armi per fomentare l’odio e giustificare la violenza, fa eco infatti il lavoro «The Speck in the Eye» (2021) costituito da «cerotti» su fotografie di grande formato che si rivelano visioni microscopiche della struttura oculare. Un modo con cui l’artista, nella lettura del critico Andrei Siclodi, intende mostrare in forma apparentemente astratta le lesioni causate agli occhi di manifestanti e giornalisti indipendenti dalla brutale repressione della polizia in varie parti del mondo.