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Letizia Riccio
Leggi i suoi articoli«Maria Barosso, artista e archeologa nella Roma in trasformazione», prima mostra monografica sull’artista, è aperta dal 17 ottobre 2025 fino al 22 febbraio 2026 alla Centrale Montemartini della capitale. La stessa Maria Barosso (Torino, 1887-Roma, 1960) sottolinea nel suo curriculum (in esposizione) un primato niente affatto comune per l’epoca: fu la prima donna italiana a essere nominata dalla Soprintendenza del giovane Regno d’Italia, «Assunta, prima funzionaria femminile, negli Uffici delle Belle Arti del Ministero della Pubblica Istruzione, specialista di disegno e pittura dei monumenti». Una fiducia molto ben riposta, date le eccezionali capacità della giovane Maria che, nel 1905, si trasferiva con la madre da Torino a Roma. Barosso dipinge fedelmente, con spessore e una rara capacità interpretativa, nei cantieri archeologici e urbanistici. A chiamarla nella capitale fu uno dei più illustri archeologi del tempo, Giacomo Boni (Venezia, 1859-Roma, 1925). Per Boni, Maria Barosso sarà interprete del metodo stratigrafico da lui adottato, ma lavorerà anche al fianco del noto architetto soprintendente Antonio Muñoz (Roma, 1884-1960).
Il primo grande scavo documentato in mostra, al quale Maria Barosso parteciperà ritraendone i preziosi affreschi, fu quello della Chiesa altomedioevale di Santa Maria Antiqua. Ancora oggi, alcuni dipinti di Barosso sono serviti a riconoscere parti delle opere deteriorate dal tempo. Una delle committenze private più importanti per l’artista giunse dal duca Gelasio Caetani, che la incaricò di realizzare acquerelli e disegni nelle sue proprietà del Lazio: il Castello di Sermoneta, le rovine e la Grotta di San Michele Arcangelo a Ninfa, il cosiddetto Palazzo di Bonifacio VIII ad Anagni. Una citazione a parte merita la presenza, in un’ampia sala, dei resti del Compitum Acilium: il santuario, risalente al V secolo a.C., è stato ritratto ancora integro da Maria Barosso, durante lo sbancamento della collina della Velia, nel 1932. I blocchi del monumento, che erano rimasti in due diversi depositi, sono stati ricomposti ed esposti per la prima volta. E ancora il nome di Maria Barosso è legato agli scavi della Basilica di Massenzio e agli Horrea Piperataria, all’Area Sacra di largo Argentina, alle demolizioni del ventennio per far posto a Via dell’Impero.
«Maria Barosso aveva una formazione molto solida, fortificata all’Accademia Albertina di Torino», spiega la direttrice dei Musei Civici di Roma Capitale Ilaria Miarelli Mariani, curatrice della mostra, insieme ad Angela Maria D’Amelio, Maurizio Ficari, Manuela Gianandrea e con la collaborazione di Andrea Grazian ed Eleonora Tosti. «Usava la tecnica dell’acquerello in maniera interpretativa, prosegue Miarelli Mariani, ed era anche una virtuosa dell’incisione. Inoltre, era una donna che con il suo lavoro manteneva sé stessa e la madre, senza essersi mai sposata». Sono presenti in mostra un centinaio di opere di Maria Barosso, fra acquerelli, oli, incisioni e disegni, più una trentina di altri artisti, e alcuni importanti reperti. Il percorso si conclude al secondo piano dell’edificio, con le interpretazioni delle demolizioni e ricostruzioni di Roma da parte di pittori che vissero in quel periodo, come Mario Mafai, Afro Basaldella, Eva Quagliotto, Tina Tommasini.
La mostra alla Centrale Montemartini è promossa da Roma Capitale, Assessorato alla Cultura - Sovrintendenza Capitolina ai Beni Culturali e prodotta con La Sapienza Università di Roma, e l’organizzazione di Zètema.