Verifica le date inserite: la data di inizio deve precedere quella di fine
Roberta Bosco
Leggi i suoi articoliSono passati 18 anni da quando Sean Scully (Dublino, 1945) ha tenuto la sua ultima mostra a Barcellona, alla Fundació Miró, e più di 5 da quando ha abbandonato la città dov’era approdato a metà degli anni Novanta e dove aveva sempre mantenuto il suo studio. Più che un trasferimento era stata una rottura e Scully se n’era andato dalla città, che aveva tanto amato e che gli aveva addirittura proposto di aprire un museo monografico, con dichiarazioni incendiarie contro i catalani e la loro lingua, che si ostinavano a parlare e che lui in più di vent’anni non aveva considerato necessario imparare.
Adesso Scully attribuisce quell’addio alle necessità scolastiche del figlio e ha sostituito la furia e l’arroganza con una nuova empatia e simpatia. Fisicamente non dimostra neanche lontanamente i suoi 80 anni, ma, con il senno di poi, il suo discorso è cambiato. «Qui mi sento a casa», ammette in uno spagnolo perfetto nonostante il forte accento anglosassone. Si nota la volontà di riappacificarsi con la stampa e i catalani e la felicità di esporre di nuovo a Barcellona. D’altronde chi avrebbe rifiutato la proposta della Fundació Catalunya La Pedrera, che gli ha offerto uno dei più significativi edifici di Gaudí per presentare una grande antologica, con più di 60 opere tra dipinti, fotografie, disegni e sculture?
Tra queste spicca la totemica «55», che ha creato appositamente per il cortile interno della Pedrera, un parallelepipedo alto quasi 7 metri formato da blocchi di vetro colorato. Conoscevamo già il potere dei suoi dipinti e il fascino delle sue geometrie di colori, ma in questa mostra, visitabile fino al 6 luglio, ciò che più sorprende sono le sculture, e non solo la gigantesca «55», che come una torre di guardia riceve i visitatori, ma anche i relativamente piccoli cubi che scolpisce, o sarebbe meglio dire assembla, dal 2021 e che sono esposti ora per la prima volta. In queste opere, i dipinti di Scully, basati sull’interazione tra il piano orizzontale e quello verticale e sulle strisce di spessore diverso che materializzano i campi di colore della sua caratteristica tavolozza, sembrano comprimersi in blocchi modulari e compattarsi in un’estensione tridimensionale del suo approccio pittorico, dando vita a composizioni solide e armoniose. Sono pietre e rocce scelte con cura nei diversi Paesi in cui viaggia instancabilmente. Non lo preoccupa quanto remota sia la zona da cui provengono i materiali, né il peso (e di conseguenza la spesa). «L’unica cosa che conta è il risultato», afferma.

Una veduta della mostra di Sean Scully a La Pedrera
Alle opere realizzate a Barcellona, che si ispirano all’urbanismo, alla cultura e alla luce mediterranea della capitale catalana, dedica la parte centrale della mostra: un angolo dove si possono ammirare i dipinti che portano il nome della città, una selezione di disegni, acquerelli e pastelli e una serie di fotografie del 1997, che illustrano questa meno nota sfaccettatura creativa dell’artista. Javier Molins, curatore della rassegna, ripercorre sessant’anni di carriera di Scully da un punto di vista cronologico, introducendo anche due esempi delle opere figurative, che dipinge per hobby da quando era giovane e che senza dubbio non gli avrebbero mai dato la fama che ha raggiunto con l’arte astratta. «Sono arrivato all’astratto dal figurativo», spiega l’artista, che ha dedicato tutta la vita a rinnovare la nostra comprensione dell’astrazione attraverso «il suo desiderio di catturare qualcosa che rifletta la materialità dello spirito umano all’interno delle coordinate del nostro mondo, a partire da un ritmo basato sulla ripetizione dei numeri 3 e 4», dice Scully, che negli anni Settanta si unì al Minimalismo «ma solo per distruggerlo dall’interno». «Il suo lavoro presenta molti parallelismi con la musica di Bach. Entrambi non lasciano nulla al caso. Ogni cosa ha una ragione d’essere, ed è proprio l’insieme che dà senso all’opera. Si possono trascorrere ore ad ascoltare lo stesso brano di Bach, così come si possono trascorrere ore ad ammirare lo stesso dipinto di Scully», afferma il curatore.
Oltre alle opere di per sé, risulta affascinante il dialogo che si stabilisce tra le linee ondulate e sinuose dell’architettura di Gaudí e le ordinate strisce di Scully. I suoi detrattori lo accusano di dipingere sempre lo stesso quadro, ma è una valutazione superficiale. Assurdo comparare la tristezza che distillano i colori spenti di «Empty Hearth», in ricordo del suo primogenito morto in un incidente d’auto a 19 anni, con le opere dinamiche e piene di energia che dipinge dopo la nascita di suo figlio Oisin nel 2010. Il figlio ricorre continuamente nei suoi discorsi. «Adesso sono schiavo dei ritmi della scuola e degli allenamenti di calcio», si lamenta, ma si vede che ne è molto felice. Oisin è stato battezzato nel Monastero di Montserrat, un luogo carico di magia e simboli trascendentali, per il quale aveva concepito uno straordinario intervento artistico. Parlandone, Scully non nasconde il suo disappunto: aveva creato la cappella per la chiesa romanica di Santa Cecilia, che fa parte dell’insieme monastico, come regalo per i visitatori e i pellegrini, ma attualmente si può visitare solo in gruppo e previa prenotazione.

Sean Scully di fronte a «55» nel cortile di La Pedrera