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Margherita Panaciciu
Leggi i suoi articoliNel lavoro di Trisha Baga la tecnologia si presenta come un organismo dotato di sensibilità narrativa, una presenza con cui entrare in relazione e da cui farsi attraversare. In «MORE», la sua nuova mostra da SOCIÉTÉ (dal 7 novembre al 15 gennaio) l’artista americana espande ulteriormente questa dimensione relazionale, trasformando lo spazio in un sistema operativo vivente: un desktop che ha smarrito i confini dello schermo e si manifesta come ambiente sensoriale, fatto di video 3D, ceramiche e proiezioni su dipinti. L’immagine non è più una superficie, ma un habitat in cui si accumulano, si confondono e si rigenerano frammenti di realtà e di finzione.
Il titolo stesso evoca il gesto primario del desiderio: una delle prime parole pronunciate da un bambino, ma anche il mantra che governa la nostra economia cognitiva e tecnologica – più dati, più velocità, più connessioni. Baga intreccia questi due poli, l’innocenza dell’apprendimento e la voracità del progresso, per interrogare la fame di espansione che definisce il presente. L’artista mette in scena una tensione tra la crescita come processo vitale e la crescita come accumulazione incontrollata, mostrando come l’atto stesso del conoscere si sia trasformato in un atto di consumo.
Al centro della mostra si trova il video «MORE», una composizione associativa e ricorsiva che assorbe filmati originali, frammenti di fantascienza e suoni trovati. L’opera nasce da un confronto con un software di montaggio capace di prevedere e suggerire, una tecnologia che pretende di organizzare il materiale secondo una «trama primaria». Baga ne sovverte la logica, opponendo alla linearità predittiva un processo di costruzione intuitivo e stratificato, in cui le immagini si comportano come pensieri erranti, in perpetua mutazione. Il gesto di rifiutare la trama imposta dal software diventa un atto di resistenza, non la negazione della macchina, ma la scelta di restare in dialogo con essa, di convivere nel disaccordo.
Trisha Baga, Video Still, 2025. Courtesy of the artist and SOCIÉTÉ
Trisha Baga, Video Still, 2025. Courtesy of the artist and SOCIÉTÉ
Questa relazione ambigua si riflette nel ritmo dell’opera, che attraversa ambienti e stati d’essere: le profondità marine, lo spazio cosmico, le grotte, gli acquari urbani, l’attrazione Disney «Carousel of Progress». Ogni scenario appare come una soglia tra organico e artificiale, tra naturale e simulato. L’artista costruisce un montaggio che respira, metabolizza, producendo un tempo espanso in cui la narrazione si dissolve nell’esperienza. Le voci fuori campo che attraversano il video guidano e confondono lo spettatore: talvolta rassicuranti, come quella di una figura genitoriale, talvolta inquietanti. In questa dinamica di riflessione e rispecchiamento, Baga mette in parallelo la crescita dei figli e la formazione delle macchine. Entrambe si fondano sulla ripetizione, sulla cura e sull’imitazione; entrambe richiedono attenzione e tempo. Ma se la tecnologia è stata «cresciuta» senza amore, come l’artista afferma, ciò che essa ci restituisce è la forma riflessa di quella mancanza.
La fame che attraversa «MORE» è una fame di riconoscimento, di reciprocità, di significato. La proliferazione delle immagini e dei dati non genera conoscenza, ma un ciclo digestivo in cui ogni contenuto viene assimilato, scartato, ricombinato. In questo processo, Baga mostra la possibilità di una metamorfosi continua, una rigenerazione in cui l’umano e il tecnologico si ridefiniscono a vicenda. La citazione da Annihilation di Jeff VanderMeer – «Crea dal nostro ecosistema un nuovo mondo […] che diventa ciò che incontra senza rinunciare alla sua alterità» – risuona così come un manifesto. Le opere di Baga non denunciano né celebrano il digitale ma ne rivelano la dimensione emotiva, la sua capacità di imitare il modo umano di apprendere, desiderare e mancare. La mostra si configura così come un paesaggio sensibile in cui le categorie di organico e inorganico, umano e artificiale, non reggono più. Tutto è connesso da un impulso comune – la fame di relazione – che genera forme, storie e sistemi in un ciclo incessante di feedback. In questo orizzonte, «di più» non significa accumulare, ma trasformarsi.